Corriere della Sera, 14 dicembre 2024
Intervista a Mariangela D’Abbraccio
Mariangela D’Abbraccio, attrice, cantante. Una vita da protagonista tra le grandi personalità del teatro. Una vocazione?
«Un destino. Nonno primo violino al San Carlo, nonna pittrice, zii musicisti e una madre che mi ha preparato da subito al teatro. Il nostro gioco di bambine era l’improvvisazione: “Entrate in questa stanza, fate finta che qualcuno vi aspetti di là”».
Dov’è nata?
«A Napoli, anzi a Secondigliano. Mia madre, incinta a 16 anni, è scappata di casa perché mio nonno era infuriato. Mentre fuggiva si è sentita male. È andata in un pronto soccorso. Stavamo morendo entrambe. Un coraggioso medico mi tirò fuori per la testa con il forcipe, tanto che po ebbi il “piccolo male”, però ci siamo salvate».
L’infanzia?
«Ad Avellino, dove è la storica famiglia di mio padre, i Cucciniello. Ma verso gli otto anni mia madre ha portato me e mie sorelle a Roma, che nei Sessanta-Settanta era la Dolce vita».
Sua madre, Anny D’Abbraccio, ha contato molto?
«Eravamo quasi sorelle. Era sola, ma per scelta, voleva essere al comando. Si è fatta spazio nel mondo con naturalezza. Questo mi ha permesso di partire con un coraggio diverso, senza paura del futuro. Mi ha mostrato la grande forza delle donne e la possibilità del sogno, che oggi manca».
I giovani non sognano?
«Poco. E all’inizio della creazione della tua persona non deve esserci cinismo o calcolo, ma uno slancio pericoloso. La passione ti salva. Oggi c’è troppa paura, anche di amarsi. Devo dire grazie a mia madre».
La sosteneva?
«Mi preparava lei per i provini. Una volta ero a letto con un menisco rotto. Mi arriva una comunicazione dal Piccolo. Strehler vuole vedermi. Mi spacco il gesso e vado, mezza zoppa. Porto il monologo di Blanche dal Tram di Tennessee Williams, impostato da mia madre. Con me Strehler fu tenero, mi vedeva piccola, mi chiamava Mariangelina. Avrei dovuto fare una breve sostituzione, ma si accorse della gamba. Disse: “Stai attenta, non farti toccare il ginocchio, è un punto molto delicato. Il tuo posto è il palcoscenico, ma ora occupati della gamba”».
La musica?
«Nel ’78-‘79 ho fatto una tournée con Fiorella Mannoia. Ero nelle Camomilla, gruppo creato dalla Ricordi. Facevamo metà spettacolo noi, metà Fiorella. Io ho studiato danza classica al balletto nazionale e la produzione voleva ballerine-cantanti. Eravamo in cinque, Spice Girls d’altri tempi e latitudini. Avevo 15 anni. Come fai a dire di no? Frequentavo gente di musica, ma pensavo al teatro. Enrico Ruggeri l’ha scritto nella sua autobiografia: “Ho incontrato Mariangela che diceva sempre: voglio fare l’attrice”».
E Pino Daniele?
«Mi indicò la strada: “Tu sei napoletana e vuoi fare l’attrice, devi iniziare da Eduardo, dalle tue radici”. Corsi a cercare De Filippo. L’anno prossimo sarò in tour con uno spettacolo su entrambi, perché Eduardo era un’ispirazione per Pino».
Lei è stata candidata al Premio Tenco…
«Sono stata ovunque con il concerto di canzoni napoletane E chi mo canta appriesso a me? Ho persino chiuso le olimpiadi a Casa Italia a Londra nel 2012, una bella emozione. Ne nacque un disco e la casa di produzione mi candidò. Inaspettato regalo».
Torniamo a De Filippo.
«Stava facendo le sue lezioni all’università di Roma. Andai: “Mi scusi, direttore – lo chiamavano così —, posso assistere? Studio recitazione”. E lui: “Vieni domani a questo indirizzo, mio figlio cerca un’attrice”. Mi ritrovai a casa di Eduardo. Esordì: “Ci sono due commedie che puoi fare, adesso incontri Luca”. Poi aggiunse: “Sei emozionata? Beviti un’aranciata”. Feci una lettura insieme a Luca, che mi volle in compagnia ed è stato davvero importante per me: aveva una sensibilità diversa dal padre, ma era anche lui attore sublime e capocomico di altissimo livello. Recitai diretta da Eduardo: il suo Ditegli sempre di sì e Tre calzoni fortunati di Scarpetta. Eduardo capiva chi eri da come camminavi, guardavi o parlavi».
Com’era?
«Nessun attore gli si avvicinava. Io invece, nella mia incoscienza, gli parlavo: “Scusi, ma lei non mi dice mai niente, non mi dà indicazioni?”. E lui: “Non ho detto niente, perché non c’è niente da dire, quando ci sarà da dire, dirò”. Con me era accogliente, con altri molto severo. Andava a simpatia, ma simpatia per il talento».
Quando è diventata da Cucciniello D’Abbraccio?
«Mia madre scelse il nome d’arte Dabbraccio. Però Federico Fellini mi suggerì di modificarlo. Stavo girando con Franco Zeffirelli La traviata, ero una delle zingarelle. Andai a Cinecittà a trovare Federico. Nacque un rapporto di amicizia. Mi disse: “Ma perché non ci metti un apostrofo? Diventa più capriccioso”. Ho messaggi lunghissimi di Federico sulle vecchie cassette della segreteria. Lo vidi una delle ultime volte nel suo studio a Roma. Aveva grande difficoltà a mettere su un film e questo l’addolorava. Certi incontri mi hanno nutrito e non mi hanno lasciata mai sola nella vita, penso anche a Francesco Rosi, a Giuseppe Patroni Griffi».
Insieme a Elisabetta Pozzi e Laura Marinoni sta portando in scena Un perdente di successo, dall’autobiografia di Giorgio Albertazzi, ideato dalla moglie Pia Tolomei di Lippa. Il 16 dicembre sarà all’Argentina di Roma. Albertazzi?
«Un incontro umano e professionale. Non voleva essere un maestro, ma si faceva derubare, provocava consapevolezze. Grazie a lui ho capito cosa fosse per me stare su un palcoscenico, agganciare la fantasia del pubblico. La nostra relazione è arrivata dopo. Sono stata una persona significativa per lui, ma certo non come Pia, la donna della sua vita, sempre tesa al suo bene. Lei e io siamo come sorelle. Dopo spettacoli come Svenimenti, Dannunziana, Casanova, sono andata con le mie gambe. Ero inquieta, non mi accontentavo mai. Con me lui non era protettivo come con altri. Mi sfidava, mi provocava».
La bellezza conta?
«In teatro la bellezza è un’altra cosa. Spesso il palco è feroce, se non hai talento diventi brutto. In un mondo come questo, il teatro è rivoluzione. Fuori ci sentiamo tutti fragili, vittime di gabbie sociali, a teatro puoi essere quello vuoi, senza sovrastrutture, limiti, puoi cambiare il tuo destino, avere anche un’altra età».
Cinema e tv?
«Ho detto molti no. Un giorno Luciano Vincenzoni, grande soggettista e sceneggiatore, mi vuole incontrare. Lo vedo a cena e mi parla di un suo soggetto, un film a cui tiene tanto e che racconta della sua infanzia, di una donna bellissima. Mi dice che ha pensato a me. Il film era Malèna. Ringrazio, ma non do peso. Scopro poco dopo che Vincenzoni è furibondo con me. Lo chiamo e lui davvero è in collera, perché io non mi sono fatta più viva. Mi dice che il film è in mano a Scola. Poi lo ha realizzato Giuseppe Tornatore con Monica Bellucci, che io adoro. Solo per dire quanto ero distratta dal teatro».
Se ne pente?
«No, perché il teatro è libertà e la libertà è la cosa a cui tengo di più nella mia vita».
Parliamo di grandi donne?
«Prima fra tutte Dacia Maraini, che scrive per me. Penso al nostro primo incontro, lo spettacolo Camille Claudel, o all’adattamento del film Nella città l’inferno. Poi la sua meravigliosa Maria Stuarda, l’adattamento di Teresa la ladra. Le devo tantissimo. Di recente ho incontrato Liliana Cavani, con cui ho condiviso Filumena Marturano, che lei ha costruito su di me, facendomi sentire il personaggio, seguendomi e facendosi seguire».
E Francesco Tavassi, suo marito?
«Mi ha dato la possibilità di realizzare i lavori che desideravo. Lui, da regista, ti cuce addosso uno spettacolo che arriva al pubblico. Una grande dote».
Con sua sorella Milly D’Abbraccio come vivete la differenza?
«Vive la difference! Siamo molto legate e diverse. Quando ha deciso di prendere la carriera di pornostar io le ho scritto una lettera dicendole che per me faceva una cazzata, perché aveva un sacco di talento. Il talento non manca in famiglia, un’altra sorella, Yvonne, ha una grande scuola di recitazione, e Jacqueline è una cantante dalla magnifica voce».
Prossimi progetti?
«A gennaio inizierà la tournée del mio quarto Tennessee Williams, Lo zoo di vetro, con la regia di Pier Luigi Pizzi, che è la storia del teatro e un regista di oltre novant’anni con l’energia di un ragazzino».