il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2024
Racconto sui visti americani e New York
A fine novembre del 2024 avevo fatto la domanda di visto per gli Stati Uniti, avevo compilato il modulo online e quando mi avevano chiesto se mi era mai stata rifiutata una domanda di visto avevo risposto di sì, che mi era stata rifiutata.
Nel 1988. Avevo 25 anni, era stato, per poco più di un anno, responsabile dell’ufficio dogane in Iraq, a Baghdad, di un’impresa edile di Parma, ero appena tornato in Italia dopo avere dato le dimissioni, volevo fare un mese di vacanza negli Usa prima di iscrivermi all’università, ero andato al consolato a Milano, una funzionaria del consolato mi aveva chiesto come mai, avevo lavorato in Iraq. «Per guadagnar dei soldi», le avevo risposto io. Che mi sembrava una bella risposta, e vera, anche, solo che lei mi aveva guardato in silenzio, era castana, aveva i capelli corti e un sorriso un po’ di traverso, come se mi prendesse per il culo, mi aveva dato indietro il passaporto e mi aveva detto «Il suo visto è rifiutato».
Niente vacanza negli Stati Uniti.
Due anni dopo, facevo già l’università, avevo chiesto un visto per l’unione Sovietica, me l’avevan dato subito. «Ma pensa», avevo pensato.
C’ero stato, poi, negli Stati Uniti, una volta, nel 2002, in Mississippi, per una rivista, a scrivere un articolo sul blues, e gli americani, non so come dire, non mi eran piaciuti tantissimo, gli americani con i quali avevo avuto a che fare, soprattutto i bianchi che mi era sembrato che avessero paura dei contatti umani. Che fossero come barricati, dentro le loro case, dietro le aiuole.
Mi erano piaciuti di più i neri. Mi ricordo un ragazzo nero seduto sui gradini della veranda della sua casa di legno, quando gli avevo chiesto cosa pensava del blues aveva allargato gli occhi «Il blues?» aveva detto.
«Mio nonno», aveva detto, «ascoltava il blues». «Eh» gli avevo detto io, «Forse siamo rimasti un po’ indietro, in Italia».
E adesso, 22 anni dopo, un invito a New York a partecipare a un festival che io, dire di sì ho detto di sì ma avrei preferito stare a casa anche perché subito dopo mi avevano invitato anche in Russia, il 5 e il 6 dicembre, al festival della Non Fiction, al Gostinnyj Dvor, a cento metri dalla Piazza Rossa, e se mi avessero dato il visto per gli Stati Uniti, quello per la Russia era scontato, che me lo davano, mi invitavano loro, se mi avessero dato il visto per gli Stati Uniti avrei dovuto partire in fagottone la notte del 6, prendere un aereo per Istanbul, prendere in fagottone la coincidenza per Milano, aspettare sei ore a Milano Malpensa e poi prendere un aereo per New York e farmi 8 ore di volo per andare in un posto che ero prevenuto, contro quel posto lì.
Me l’hanno poi dato, il visto. E allora cosa vuoi fare? Sono partito.
Dall’albergo Petr Pervyj di Mosca all’albergo Empire 64 W 63rd St New York. Trenta ore di viaggio.
C’era ancora una speranza. Mi avevano detto che, all’ingresso, con i visti russi che ho sul passaporto, mi avrebbero fatto dei problemi. E io, devo dire, un po’ lo speravo, che mi facessero dei problemi, questi maledetti statunitensi.
Quando sono arrivato al controllo passaporti, una ragazza nera mi ha chiesto cosa venivo a fare a New York, e io le ho detto che ero uno scrittore che venivo a partecipare al Festival Conversazioni, alla libreria Rizzoli di New York. «E cosa scrive», mi ha chiesto lei «fiction o non fiction?». «Tutte e due», le ho risposto io. «Ah», mi ha detto lei, «e dove si ferma a dormire?». «Hotel Empire, vicino al Lincoln Center», le ho detto io. «Ok, adesso cerco i suoi libri, buon soggiorno a New York», mi ha detto lei, e ha timbrato il passaporto e mi ha fatto passare.
«Vacca miseria», ho pensato io.
New York, devo dire, non avrei mai pensato, mi è piaciuta.
Non ho fatto niente di particolare, ho camminato molto, e camminando incontravo della gente, che camminavano anche loro e sembravano vivi, qualcuno addirittura, vedeva che lo guardavo, mi salutava, come se fossimo in montagna, dove salutano tutti, educatissimi, i montanari.
E quando ho avuto bisogno, in metropolitana, che non funzionava la carta per fare il biglietto, o al Central Park, che non capivo su Maps dove dovevo andare, le persone che mi passavano vicino si sono fermate per chiedermi «Serve aiuto?».
Gentilissimi, mi sono sembrati, i newyorchesi coi quali ho avuto a che fare, tutti tranne quelli alla reception dell’Empire hotel, che ogni che gli chiedevo qualcosa, e ci son state diverse cose, da chiedergli, mi rispondevano con un’aria come per dire «Adesso che cazzo vuole questo rompicoglioni?».
Mi è piaciuto anche il panel, credo si dica, al quale ho partecipato, messo insieme da Antonio Monda che ha radunato i traduttori dall’italiano Ann Goldstein, Jenny Mcphee, Todd Portnowitz, Michael Moore e alle mie colleghe Giulia Caminito, Ginevra Lamberti e a me. Il quale, me, è riuscito a parlare, anche a New York, del suo argomento preferito, le ripetizioni, e a fare un esempio che fa sempre, me quando parla di ripetizioni.
Cioè ho fatto, praticamente, una domanda ai traduttori americani, e gli ho detto che nell’editoria italiana c’è la convinzione che la lingua italiana, diversamente da altre lingue, non regga le ripetizioni, e questo produce degli effetti strani, cioè per esempio il fatto che ha raccontato Giuseppe Culicchia di quando, doveva tradurre American Psycho, di Bret Easton Ellis, e era andato a vedere la traduzione precedente.
Nella prima pagina dell’originale compariva tre volte la parola Bus, e nella prima traduzione italiana di American Psycho il traduttore aveva tradotto il primo Bus con Autobus, il secondo con Corriera, il terzo con Torpedone.
Che per il lettore italiano diventava difficilissimo capire che quel torpedone alla fine della pagina era lo stesso autobus che c’era all’inizio della pagina che si era trasformato, a metà della pagina in una corriera, che autobus e corriera, in italiano, son due cose diverse, che hanno due funzioni diverse, due colori diversi, son fatte in un modo diverso, torpedone non lo so, ho detto a New York, com’è fatto, che io, il torpedone, ho raccontato questa storia a un mio conoscente, lui mi ha detto che lui, se dentro un romanzo leggeva Torpedone lui aveva l’impressione che fosse successo qualcosa di brutto.
«E voi», ho chiesto ai traduttori americani, «se trovate una ripetizione la tenete o la togliete». E mi hanno risposto che, in generale, la tolgono, perché l’inglese, mi ha detto, diversamente dall’italiano, non regge le ripetizioni.
Che lì io ho avuto quell’impressione che hai delle volte, all’estero, che te sei all’estero, ma ti sembra di essere a casa. Ecco.
Son stato benissimo, a New York.