Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 13 Venerdì calendario

Il casco obbligatorio diminuisce i cuori da trapianto

Padova – «Perché nessuno lo aveva fatto prima? Potrei citarle Goethe: “Niente è più difficile da vedere con i propri occhi di quello che si ha sotto il naso”. Noi, comunque, l’abbiamo fatto». Gino Gerosa, 67 anni, è il cardiochirurgo dei record. Dal 2003, da quando dirige il centro Gallucci dell’Azienda Ospedaliera di Padova – dedicato al medico che per primo eseguì un trapianto di cuore in Italia, proprio qui – ne ha inanellati 14 a livello nazionale e 6 a livello mondiale. L’ultimo due settimane fa: il primo trapianto al mondo a cuore battente. Il paziente è prossimo alle dimissioni.
Gerosa, oltre la competenza, che visione ci vuole per operazioni così rivoluzionarie?
«Serve esperienza. Creatività, perché la curiosità del fanciullo permette di identificare strategie che altri non vedono. Coraggio chirurgico, che è l’assunzione di responsabilità nel modificare la rotta. E l’etica».Cosa significa trapianto a cuore battente?«Abbiamo prelevato l’organo, inserito in un macchinario per il trasporto e reimpiantato nel ricevente. E il cuore non ha mai smesso di battere. Danni da ischemia da perfusione ridotti a zero e performance migliori. Eseguire le suture su un organo che si muove sembra complesso, ma il fatto che il cuore batta regala tempo».La prossima frontiera è il cuore artificiale?«In Italia ogni anno ci sono 850 pazienti in lista d’attesa e riusciamo a soddisfarne meno della metà. Servono soluzioni: il cuore artificiale e quello del maiale».Non ci sono abbastanza cuori?«Non più. Grazie alla legge, sacrosanta, che obbliga i motociclisti a indossare il casco. Ai tempi dei primi trapianti di Gallucci, l’età media dei donatori era sotto i 18 anni, ora è oltre i 60».E lei com’è diventato cardiochirurgo?«Le ho provate tutte per sfuggire a questo destino. Pensi che arrivavo dalla Scuola militare Nunziatella di Napoli. Poi ho fatto domanda all’Accademia di Sanità Militare a Firenze per diventare ufficiale medico».E non ha passato il concorso…«Macché. Hanno perso la lettera e non mi hanno mai chiamato. Così mi sono iscritto a Medicina».Quindi il medico lo voleva fare…«Il medico sì, da sempre. Forse perché da bambino ho trascorso tanto tempo in ospedale, per dei controlli. E poi mi è sempre piaciuto stare in mezzo alle persone, prendermi cura degli altri».Quindi si è iscritto a Medicina, senza test.«Eravamo in 3 mila. Aperture indiscriminate mettono a rischio la formazione, ma i vecchi test non erano la soluzione. Potrebbero esserlo degli esami-filtro, ma non sempre un ottimo studente diventa un buon medico».Torniamo al destino che l’ha fatta diventare cardiochirurgo…«Università, ultimo giorno per scegliere la specialità. Ho sbagliato aula e mi sono trovato di fronte al professor Casarotto, che parlava di cardiochirurgia. Ultimo incontro dell’ultima giornata. Lì ho scelto».E poi?«Metà specialità a Londra, al seguito di Donald Ross, compagno di corso di Christiaan Barnard, autore del primo trapianto di cuore della storia. L’ho anche incontrato, Barnard: gli ho chiesto l’autografo, con quello di Ross».La prima operazione?«Bypass con la vena safena, 3º o 4º anno di specialità. Ci sono affezionato, anche perché quel paziente l’ho rioperato, da direttore a Padova».Si è pentito di aver fatto il cardiochirurgo?«È un lavoro totalizzante e ho rinunciato a molto, ma il rapporto coi pazienti compensa tutto. E la mia è una chirurgia ricca di speranza. Abbiamo sempre risposte valide e incidiamo sull’aspettativa di vita dei pazienti. La morte esiste, ma l’innovazione tecnologica è un’alleata».Negli Usa un ragazzo ha ucciso il ceo di una delle più grandi compagnie di assicurazioni sanitarie del Paese. La sanità pubblica e universale, in Italia, è un valore da preservare?«Il nostro sistema sanitario universalistico è un patrimonio a cui non dobbiamo rinunciare. Chiunque ha accesso alle cure più sofisticate, indipendentemente dalla sua capacità economica. Ma serve rispetto per medici e infermieri, è inaccettabile che ci sia chi entra in un pronto soccorso per menare chi vi lavora».Perché accade?«Perché le cure sono gratuite e quello che è gratis si percepisce come un disvalore. Bisogna educare i cittadini, spiegando loro cos’è il Servizio sanitario nazionale. Anche in tv: meno balletti e più cultura».Spesso si rende merito alla sanità per la sua capacità di slanci straordinari, ma la si ritiene lacunosa nell’ordinario. Che cosa risponde?
«Che nella vita si può sempre fare meglio, e pure nella sanità. Ma bisogna coinvolgere tutti gli attori. E, se la politica ascoltasse medici e infermieri, la nostra sanità sarebbe migliore».