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 2024  dicembre 13 Venerdì calendario

L’Europa sta iniziando a reagire? Qualche indizio c’è

«Continuavano a chiedermi da dove può venire la crescita». Innes McFee è capoeconomista di Oxford Economics, una società di analisi che la settimana scorsa ha fatto un tour fra grandi investitori negli Stati Uniti. Molte delle loro domande erano su di noi, noi europei. Volevano sapere se possiamo produrre una sorpresa positiva e il loro, naturalmente, è solo opportunismo. Visto che in Europa va tutto male – le guerre e la nostra impotenza nel fermarle, la stagnazione, Germania e Francia in cerca d’autore, ritardi tecnologici ed eccessi del Green Deal, Donald Trump che vuole staccarci la spina – dev’esserci per forza un margine di miglioramento. Non foss’altro perché quello di peggioramento si è ridotto: difficile far peggio di così. Non è un caso se la Banca centrale europea continua a tagliare i tassi d’interesse più in fretta della Federal Reserve e l’euro continua a perdere quota sul dollaro. L’economia europea è debole ed erano trent’anni che le imprese dell’area euro non trattavano a uno sconto così vasto (30%) su quelle americane. Da trent’anni il mondo non ci valutava così poco, finanziariamente: tanto poco che, a puntare sull’Europa adesso, si rischia per forza di cose di guadagnare più di quanto non si possa perdere.
Anche alzando lo sguardo alla realtà più generale, la domanda resta la stessa: da dove possono arrivare i segnali di risveglio? Perché dire che niente funziona, oltre che corretto, inizia a essere un po’ troppo facile.
Questo giornale racconta almeno da otto anni che la Germania vive una crisi, per quanto latente dai tempi in cui Angela Merkel veniva issata su un piedistallo di infallibilità. E racconta da molto più tempo la miopia tecnologica dell’Europa, divenuta palese da quando in piena pandemia ci volle un gruppo americano (Pfizer) per realizzare un vaccino nato da scoperta fatta in Germania.
Oggi è più urgente cercare di rispondere a quelle domande ricevute da Innes McFee: dopo lo choc della rielezione di Trump, il leader americano più protezionista e isolazionista da un secolo, l’Europa sta iniziando a reagire? Perché qualche indizio c’è. Paolo Gentiloni, lasciando il suo posto di commissario all’Economia, ha detto a Paolo Valentino sul Corriere che serve un nuovo eurobond per la difesa europea. Germania e Olanda forse non lo seguiranno alla lettera, ma nemmeno loro si stanno opponendo ormai a un «veicolo speciale» europeo che emetta titoli per almeno 500 miliardi di euro garantiti pro-quota dai governi che ci stanno. Inclusi alcuni fuori dal club, come la Norvegia e forse un giorno il Regno Unito. Quei fondi servono per dare all’Europa una difesa anti-aerea e sostenere il dispiegamento di forze di pace in Ucraina, quando si potrà. Non ci siamo ancora, ma l’obiettivo è chiaro e i governi in gioco ci lavorano.
Quel fondo per la difesa, senza dirlo, manderebbe di colpo in soffitta il nuovo patto di Stabilità europeo nato da pochi mesi e già obsoleto di fronte alle pressioni della storia. Garantire pro-quota emissioni «europee» da 500 miliardi equivale infatti, per i governi coinvolti, a fare debito fuori bilancio: sotto gli occhi di tutti eppure invisibile ai controlli di Bruxelles. Una foglia di fico, però utile.
Sempre per il Corriere, nella loro newsletter Europe Matters Francesca Basso e Viviana Mazza raccontano come anche la firma di Ursula von der Leyen sul patto di libero scambio con il Mercosur sia una risposta al ritorno di Trump. Quell’accordo era fermo da decenni. Ma se ora gli Stati Uniti si chiudono con i dazi, l’Europa ha bisogno di aprire altri mercati. A Bruxelles le stesse tensioni con la Cina si sono stemperate, dopo le elezioni americane. Né ci sarebbe da sorprendersi a vedere presto l’Europa impegnata in nuovi accordi commerciali, con l’India o nell’Asia del Sud-Est.
Del resto la caduta dei tabù sta arrivando al cuore del sistema. L’imminente ritorno di Trump ha obbligato persino i tedeschi più riluttanti ad ammettere che il loro freno costituzionale al debito è fuori dal tempo: uno strumento di paralisi tecnologica e miopia strategica. Implicitamente lo ha riconosciuto persino Merkel a Mara Gergolet e Paolo Valentino sul Corriere. Il governo di Olaf Scholz è caduto proprio per rimuovere la difesa a oltranza di quel vincolo e il probabile futuro cancelliere, il cristiano-sociale Friedrich Merz, promette di superarlo. La Germania investirà di più. E soprattutto accetta (almeno in teoria) che deve rinnovare se stessa con strumenti che finora aveva sempre respinto: un sondaggio del Gran Continent mostra come i tedeschi oggi siano incredibilmente persino più favorevoli di italiani, francesi e spagnoli alla raccomandazione di Mario Draghi sugli investimenti da 800 miliardi l’anno in più da fare in Europa.
Intanto anche Parigi qualche indizio interessante lo dà, nella sua lunga crisi politica. I mercati hanno deciso di dar tempo alla Francia, mentre le forze politiche più costruttive – a sinistra, più che a destra – si stanno liberando del ricatto degli estremisti.
Sono pochi indizi e ambigui, tutti questi. Anche messi insieme non fanno una prova, perché tutto può andare ancora terribilmente storto. In Ucraina, nel commercio, sull’energia o gli investimenti. Si può sempre contare sull’Europa e sui suoi governi perché si perdano in una giungla di particolarismi e deludano le attese dei cittadini. Soprattutto, si può sempre contare su Trump perché cerchi di indebolire l’Unione europea con il più classico dei «divide et impera»: offrire qualche piccola concessione a qualche governo «amico» per scomporre il fronte e far perdere l’Europa nel suo insieme, soprattutto sul piano economico e commerciale. È una tattica sulla quale tutti dovremo stare in guardia. Non solo, ma anche, in Italia.