La Stampa, 12 dicembre 2024
Intervista a Ettore Messina, coach dell’Olimpia Milano
Liceo Franchetti di Mestre, sala professori. Tonino Zorzi, detto il Paron, prende da parte l’alunno Messina Ettore e gli spiattella in faccia l’amara verità: «Ti xe un coion». Corre l’anno 1973: il basket italiano perde (forse) un giocatore, ma trova un coach che avrebbe fatto la storia.Forward. Olimpia Milano, sesto posto in campionato, settimo in Eurolega. Coach Messina: oltre ai numeri che cosa ha capito di questo inizio stagione?«Abbiamo cambiato otto giocatori rispetto alla scorsa stagione. Non mi aspettavo di vincere la Supercoppa con la Virtus, speravo di partire meglio in Eurolega ma ci siamo ripresi con 7 vittorie nelle ultime otto partite. Il nostro obiettivo sono i playoff e navighiamo alla giornata. In campionato tre ko sono arrivati dopo i match di Eurolega al venerdì. Facciamo fatica, è un dazio. E non mi si dica che tanto poi noi e la Virtus... Tanto poi nulla, io penso gara dopo gara».«Abbiamo giocato per fare canestro e non per la squadra. Ma la colpa è mia che non riesco a trasmettere ai giocatori certi valori»: l’ha detto lei dopo il ko con la Virtus. Questione strutturale o contingente?«No, tipica situazione di una nuova squadra. Nei momenti difficili c’è chi cerca di fare l’eroe, di giocare con la pancia invece che con la testa. Spero che abbiano capito».Per giocare con la testa servono i leader e lei li ha avuti. Per restare solo a Milano: Rodriguez, Hines, Datome, Melli. Qual è la prima qualità di un caposquadra?«Se mi permette una piccola volgarità le rispondo».Ci fidiamo.«Leader è chi si fa un gran culo in campo. Poi parliamo del resto. Bob McAdoo ha fatto migliaia di punti, ma tutti si ricordano di quel tuffo clamoroso per rubare palla. Un leader deve essere inattaccabile da questo punto di vista».Tornando all’Armani?«Mi piace citare Fabian Causer, 37 anni: arriva dal Real. Personalità che travalica vittoria o sconfitta. C’è un grande bisogno di giocatori simili».Come è stato allenare Kobe Bryant o Tim Duncan?«Piano, non sono così presuntuoso per dire che li ho allenati. Io andavo in palestra con loro. Persino uno come Popovich – ci torneremo sul coach dei coach – li ringraziava per averli potuti allenare».Quindi non contate niente voi che state in panchina?«Non voglio sminuire il ruolo dell’allenatore, ma se il giocatore percepisce che tu, immaginandoti il regista della squadra, vuoi fare Fassbinder, si mette a ridere. Devi essere bravo a incuriosirli, poi ogni tanto puoi anche dire loro che stanno sbagliando qualcosa».E affidarsi all’intelligenza artificiale?«No o non ancora, non lo so. So invece che come tutte le cose che non capisco mi fa paura. Ho visto il video di Musk che bacia Meloni, impressionante».Quando ancora Musk era nella stratosfera, il giovane Ettore aveva in camera il poster di Che Guevara. Chi era per lei?«Primi anni Settanta, al liceo sfilavamo con l’eskimo per i decreti delegati. Roba che quando lo dico a mio figlio ventenne si mette a ridere. Pensavamo di cambiare il mondo e il Che rappresentava la nostra utopia».I poster sono archeologia, ma il giovane Ettore oggi chi si metterebbe in camera?«Chiunque si battesse, ma veramente, contro ogni intolleranza. Il problema è che non lo vedo, perché prima o poi ci caschiamo tutti. E mi spaventa. Ho vissuto negli Stati Uniti e sa una delle cose che più mi ha colpito?».Dica?«Là tutti fanno beneficenza, non solo le persone ricche. Quindi c’è una tendenza sociale a recuperare chi sta indietro, eppure per curarsi servono assicurazioni mostruose che scavano le differenze fino a creare gente come il killer di New York. Dov’è l’equilibrio? Ma invecchiando ne parli troppo, diventi fastidioso e passi per rompiballe».Ha vissuto un anno a Los Angeles e cinque a San Antonio: Obama e poi il primo di Trump. Se l’aspettava il ritorno di The Donald?«I democratici negli Usa, come la sinistra da noi, non sono stati in grado di produrre una leadership credibile. In quel vuoto l’uomo forte, e non solo l’uomo, fa presa. Trump ha goduto dei voti degli ispanici e delle donne, dov’era la sinistra? Per questo non mi ha stupito».Ha cambiato molte città: il trasloco più difficile?«Non ho mai avuto troppe difficoltà a muovermi, ma venire via da Madrid, dove peraltro non ho fatto bene, mi è spiaciuto. Madrid è affascinante».Per Sting casa è la lounge dell’aeroporto di Heathrow. Per Messina invece?«Bologna. Il giorno libero lo passo lì, ci vivono mia mamma e i parenti di mia moglie».La partita del cuore?«La finale 2008 di Eurolega a Madrid con il Cska: era appena morto mio fratello e quella vittoria diede a me e alla mia famiglia il seppur temporaneo sollievo di poter guardare avanti».E quella del diavolo?«Il playoff di Torino perso nel 2016 contro la Croazia per andare ai Giochi. Un ambiente simile per un match non l’ho mai più rivisto».Messina è un duro: vero o falso?«Una balla. Messina non ride? Ma che cosa ci sarà poi da ridere? E non lo dico solo per il basket. Comunque sì, anche a 65 anni si può migliorare».Assistant coach per anni di Popovich -– rieccolo –. Il massimo. Uno che non si faceva problemi a dire in faccia le cose: «Brutally honest». Da qualcuno avrà pure imparato. O no?«Se sei iscritto a quel club, tendi a dire quello che pensi. Prevengo la domanda: sì, sono tra gli iscritti».Coach dell’Armani e presidente delle operazioni di basket del club: Messina accentratore?«Chi lo dice manca di rispetto a chi lavora con me. Io metto l’ultima parola per certe scelte strategiche. E basta. Fino a quando? Il contratto scade nel 2026, penso solo a questo».Certo, avere Giorgio Armani alle spalle è come poter godere di un vitalizio?«No, è una motivazione a fare non bene, ma benissimo».Circola il progetto di Nba Europe per il 2026, che cosa ne pensa?«L’Eurolega è uno show sul campo, ma non è più sostenibile. In questa diatriba con la Fiba può inserirsi un terzo player come l’Nba che ha tutto per rimettere in piedi il basket europeo e conciliarlo con quello mondiale».È stato l’anno di Sinner, ma anche lei quanto a rossi non se le cava male: Nico Mannion ha rischiato di perdersi in ogni curva, a Milano è finalmente sul rettilineo?«Nico è giovane, ha talento ma non basta. Serve il lavoro».Sembra di sentire un rosso di nome Jannik?«Sono un grande estimatore di Sinner, l’ho visto a Torino in finale. La sua grandezza sta anche nella gestione delle emozioni e delle tensioni. Lui non mette un tappo, non le sopprime. Ma appunto, sa come conviverci».Ha visto Guardiola: lo stress ha sconfinato nell’autolesionismo? Proprio così difficile gestire certe situazioni?«Lo capisco. Ci siamo passati tutti, io compreso. Anche se non mi sono mai graffiato».C’è un momento in cui si passa da bella promessa alla categoria di solito stronzo. Solo a pochi fortunati l’età concede di accedere alla dignità di venerato maestro (Arbasino). Lei a che punto è?«Spero di non rimanere per molto nella seconda categoria».