La Stampa, 12 dicembre 2024
De Silva sulla serie Cent’anni di solitudine
Sono nipote di cugini. I miei nonni materni lo erano. All’epoca non fu per niente semplice, per loro, annunciare e poi imporre in famiglia il desiderio e l’intenzione di sposarsi, ma lo fecero, mettendo al mondo quattro figli. Ne sopravvissero due, fra cui mia madre, nata in perfetta salute e senza alcuna malformazione (che in verità nessuno predisse ai miei nonni come divina punizione del loro legame, come accade in Cent’anni di solitudine, in cui a Ursula Iguaràn, sposa del cugino di primo grado José Arcadio Buendía, viene lanciata la maledizione-patacca di una progenie di bambini nati con coda fornita di un ciuffo di peli in punta). «Non voglio partorire porci», dirà al povero José infoiato come una braciola la prima notte di nozze, tanto che il poveraccio dovrà lottare a lungo con lei e addirittura accoppare un allevatore di galli da combattimento che ne deride la virilità perché la moglie finalmente gli si conceda.Fu questa la ragione (banalotta e di bassa simiglianza, me ne rendo conto) che da ragazzo mi spinse a leggere il capolavoro di Màrquez: non per la perfetta, avvincentissima articolazione delle storie che attraversano l’epopea familiare dei Buendía (che mi prese con la forza attrattiva tipica dei grandi romanzi capaci di proiettare scene perfettamente indefinite nel cinema anarchico della mente), ma per l’ostinazione amorosa che partorisce l’intera, grande storia raccontata in quello che rimane uno fra i più importanti romanzi del Novecento, e che finalmente trova oggi un’adeguata trasposizione scenica nella serie tv Netflix diretta da Alex Garcia Lopez e Laura Mora Ortega.Leggevo il libro e pensavo ai miei nonni, peraltro nati e cresciuti in un piccolo paese del salernitano che visto da poco lontano pareva un presepio (va be’ che tutti i paesi dell’entroterra italiano sembrano presepi), e me li immaginavo lottare contro i pregiudizi della società dell’epoca per imporre il loro progetto matrimoniale romantico e rivoluzionario, per poi avventurarsi nelle inesistenti paludi alburnine e fondare il loro personale Macondo in un’improbabile, goffa pantomima di José e Ursula alla fine del XIX secolo. E poco importava che mio nonno non avesse la stoffa e tantomeno il fisico del condottiero; che mia nonna avrebbe respinto a maleparole i suoi progetti di fondazione di nuovi mondi; che mai e poi mai avrebbe avallato una sua eventuale passione per l’alchimia, se non fosse servita a procurare la pagnotta alla famiglia; che nessuno dei due avrebbe retto la traversata dell’intero viale del paese (figurarsi attraversare una selva a colpi di machete per oltre un anno per raggiungere la costa atlantica); che nessun destino, per quanto sfigato, li avrebbe mai condannati a cent’anni di solitudine: la trasfigurazione dei miei pigri nonnini postiglionesi in eroi letterari funzionava, e reggeva il racconto di un amore generativo non solo di esseri umani ma anche di terre, di comunità, di scoperte. Perché poi questo è l’amore: un generatore di mondi.È difficile fare un film-capolavoro da un capolavoro di romanzo. C’è riuscito – sempre; a volte superando addirittura il libro, – Stanley Kubrick (Arancia meccanica o Eyes wide shut, per dirne un paio, li trovo decisamente superiori ai romanzi da cui sono tratti). Con una serie televisiva (il nuovo grande format narrativo di questi tempi), in un certo senso, è ancora più difficile, perché la maggiore disponibilità di tempo, se da un lato lavora a favore della trasposizione scenica, dall’altro rende più discutibili le scelte e le selezioni delle parti di un racconto molto stratificato (come nel caso di Cent’anni, che attraversa guerre civili e un secolo di storia colombiana) da parte del regista.Vedendo i primi episodi di questa serie (sedici in tutto, divisi in due sezioni da otto: la prima parte, è disponibile da ieri ), l’impressione è quella di un impegno produttivo di alto livello, dalla ricostruzione delle scenografie alla meticolosità dei costumi, con una cura attentissima nella trattazione dei temi affrontati nel romanzo. Il realismo magico che distingue il capolavoro di Marquez convive, e finanche cede il passo, a una corporeità della narrazione che trova un’espressione molto convincente nella recitazione degli attori (quasi tutti colombiani) capaci di restituire al film (alla serie: ma ha l’estetica di un film, cosa che avviene di frequente di questi tempi in molti prodotti televisivi, che alzano sempre di più l’asticella della qualità) una sensualità che avvolge costantemente il susseguirsi delle storie.«Molti anni dopo, di fronte al plotone d’esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía avrebbe ricordato quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva portato a conoscere il ghiaccio». È l’indimenticabile incipit di Cent’anni di solitudine, testualmente riportato nelle prime sequenze della serie come patto di fedeltà sancito con lo spettatore, a cui viene promesso il realismo magico di un romanzo che si rilegge con l’avida curiosità degli occhi in una versione finalmente compiuta e di ammirevole lavoro registico. E chissà se anche mio nonno, da divoratore di libri qual era, oggi si ritroverebbe a riconoscersi, fantasticando come in acido, nelle gesta di José Arcadio Buendía interpretato da Marco Gonzàles (un Johnny Depp depatinato), per poi tornare bruscamente alla realtà al richiamo della foresta domestica di nonna Lilina, che era realista fino al terra-terra re ma di romantico aveva ben poco.