la Repubblica, 12 dicembre 2024
L’ultimo editoriale di Krugman per il New York Times
Questo è il mio ultimo editoriale per il New York Times, il giornale su cui ho iniziato a pubblicare le mie opinioni nel gennaio 2000. Mi ritiro dal Times, non dal mondo, quindi continuerò a esprimere le mie opinioni altrove. L’occasione però si presta a una riflessione su cosa è cambiato negli ultimi 25 anni.
Quello che mi colpisce, guardandomi indietro, è la quantità di ottimismo di tanti allora, sia qui che in gran parte del mondo occidentale, e in che misura a quell’ottimismo siano subentrati rabbia e risentimento. E non mi riferisco solo agli appartenenti alla classe lavoratrice che si sentono traditi dalle élite; ora in America alcuni degli individui più arrabbiati – destinati a esercitare influenza sull’entrante amministrazione Trump – sono i miliardari che non si sentono sufficientemente ammirati.
È difficile rendere la sensazione di appagamento provata dalla maggior parte degli americani nel 1999 e nei primi mesi del 2000. I sondaggi mostravano un livello di soddisfazione per la direzione del Paese surreale per gli standard odierni. La mia impressione sull’esito elettorale del 2000 è che molti dessero per scontate pace e prosperità e abbiano quindi votato il tizio più simpatico.Anche in Europa sembrava che le cose stessero andando bene.
L’introduzione dell’euro nel 1999 venne salutata come un passo verso una maggiore integrazione politica oltre che economica – una sorta di Stati Uniti d’Europa, se vogliamo. Certi americani, “brutti e cattivi”, avevano riserve, ma all’inizio non erano ampiamente condivise.
Naturalmente non era tutto rose e fiori. Già allora erano presenti una buona dose di teorie cospirazioniste proto-QAnon e persino episodi di terrorismo interno in America negli anni di Clinton. Ci furono crisi finanziarie in Asia, che alcuni di noi videro come un presagio. Nel 1999 pubblicai un libro intitolato Il ritorno dell’economia della depressione sostenendo che cose simili potevano accadere anche da noi, ne pubblicai un’edizione rivista un decennio dopo, quando si verificarono.
Eppure la gente era ottimista riguardo al futuro. Perché questo ottimismo si è guastato? A mio parere c’è stato un crollo della fiducia nelle élite: il pubblico non crede più che quelli al governo sappiano cosa fanno o che si possa partire dal presupposto che siano onesti.
Non è sempre stato così. Nel 2002 e nel 2003 chi sosteneva che le ragioni per invadere l’Iraq fossero truffaldine ha suscitato reazioni negative da parte di chi rifiutava di credere che un presidente americano potesse fare una cosa del genere. Chi lo direbbe oggi?
In forma diversa la crisi finanziaria del 2008 ha minato la fiducia sulla capacità dei governi di gestire l’economia. L’euro come valuta è sopravvissuto alla crisi europea, culminata nel 2012 con la disoccupazione in alcuni Paesi a livelli da Grande depressione, ma la fiducia negli eurocrati non si è mantenuta.
Non sono solo i governi ad aver perso la fiducia del pubblico.
Guardando indietro è sorprendente notare quanto le banche fossero ben viste prima della crisi finanziaria. E non è passato molto tempo da quando i miliardari tech erano ammirati da tutti, alcuni assurti a status di eroi popolari. Invece ora, assieme ad alcuni loro prodotti, affrontano il disincanto e anche peggio; l’Australia ha persino vietato l’uso dei social media ai minori di 16 anni.
Questo mi riporta all’affermazione iniziale che alcune delle persone che in America ora nutrono maggiore risentimento sembrano essere proprio i miliardari arrabbiati
.Lo abbiamo già visto in passato. Dopo la crisi finanziaria del 2008, che è stata attribuita in parte alle manovre speculative finanziarie, ci si sarebbe potuti aspettare che i cosiddetti “padroni dell’universo” mostrassero un minimo di mortificazione, forse persino gratitudine per il salvataggio economico operato nei loro confronti. A venirne fuori invece è stata la «Obama rage», la rabbia contro il presidente per aver anche solo suggerito che Wall Street potesse essere in parte responsabile del disastro.
Oggi si discute molto della svolta a destra di alcuni miliardari tech, da Elon Musk in giù. Io direi che non bisogna rimuginarci troppo e non cercare di attribuirne la colpa ai progressisti politicamente corretti. Alla fine si tratta solo della meschinità di plutocrati che un tempo si crogiolavano nell’approvazione pubblica e ora scoprono che tutto il denaro del mondo non può comprare l’amore.
Esiste una via d’uscita dal luogo sinistro in cui ci troviamo? Credo che sebbene il risentimento possa portare al potere persone sbagliate, alla lunga non può mantenercele. A un certo punto il pubblico si renderà conto che la maggior parte dei politici che attaccano le élite in realtà sono élite sotto ogni profilo determinante e comincerà a ritenerli responsabili di non essere riusciti a mantenere le promesse. E a quel punto il pubblico potrebbe essere disposto ad ascoltare persone che non cercano di far leva sulla loro autorità nell’argomentare, non fanno false promesse, ma cercano di dire la verità nel miglior modo possibile.
Forse non recupereremo mai il tipo di fiducia nei nostri leader che avevamo un tempo – la convinzione che le persone al potere dicano la verità e sappiano cosa stanno facendo. E nemmeno sarebbe auspicabile. Ma se ci opponiamo alla kakistocrazia – il governo dei peggiori – che sta emergendo ora, potremmo alla fine ritrovare la strada verso un mondo migliore.
Traduzione di Emilia Benghi © 2024 The New York Times Company