la Repubblica, 12 dicembre 2024
Per il generale Masiello bisogna prepararsi al peggio
Roma – Che il clima sia cambiato lo si capisce entrando negli uffici del comando di via XX Settembre: dai soldati semplici ai generali, tutti indossano la tuta mimetica. È una delle riforme decise dal capo di Stato maggiore, il generale Carmine Masiello, che a nove mesi dal suo insediamento presenta per la prima volta la rivoluzione avviata non solo nelle tecnologie ma soprattutto nel modo di pensare per adeguare l’Esercito ai nuovi scenari: «Oggi bisogna prepararsi all’ipotesi peggiore».Lei si è arruolato nel 1981 all’acme della Guerra Fredda, poi ha servito nelle missioni di pace: cosa significa essere militari in un mondo che riscopre le guerre calde?«Un ritorno al passato, perché quando mi sono arruolato eravamo formati alla prospettiva di un conflitto totale. Oggi però ci vogliono militari diversi: le guerre attuali mettono in discussione lo stereotipo del militare come figura improntata alla rigidità. C’è bisogno di una capacità di adattamento che è in contrasto con i canoni dell’organizzazione gerarchica. E questo è il passo più difficile: cambiare la cultura dell’Esercito. È indispensabile iniziare a farlo, altrimenti saremo inevitabilmente perdenti. Lo saremo perché la tecnologia mette in discussione tutte le armi e i metodi di combattimento. Solo i valori dell’Esercito sono immutabili: restano la nostra forza. Si è visto in ogni crisi: noi ci siamo e non ci fermiamo mai, perché dentro abbiamo un fuoco che ci ha portati a scegliere questa vita e a essere pronti a fare tutto per il Paese».C’è la prospettiva di missioni per potenziare la forza Onu in Libano, che potrebbe risentire del caos in Siria, o per un contingente di stabilizzazione di un’eventuale tregua in Ucraina. Impegni ancora più difficili di quelli attuali…«Stiamo rivedendo tutto l’iter formativo. Il passo più difficile è appunto quello culturale: dobbiamo uscire dall’approccio degli ultimi venti anni che era quello dell’approntamento, ossia della preparazione in vista di una specifica missione in Libano o altrove. Il cambio degli scenari mondiali impone di essere pronti all’ipotesi peggiore: avere la capacità di fronteggiare situazioni nuove e quindi pensare fuori dagli schemi. Ad esempio in addestramento bisogna imparare a sbagliare: gli errori sono costruttivi. Scenari complessi richiedono flessibilità per misurarsi con l’imprevisto: sapere rischiare, uscire dalla comfort zone».Sono idee rivoluzionarie rispetto alla cultura che ha dominato l’esercito italiano sin dalla nascita…«Stiamo assistendo a una rivoluzione militare e ci vuole un approccio che non può essere evoluzionario. È lo spirito con cui cerco di formare i futuri quadri. Noi come gli altri eserciti occidentali ci siamo ritrovati impreparati davanti all’Ucraina e ora stiamo correndo per reagire. Per vincere però non bisogna reagire ma agire. Lo sforzo più significativo che stiamo facendo è pensare a quali saranno le sfide dei prossimi 15-20 anni. Lavoriamo su due binari: reazione e proattività».Che cosa significa?«Reagire all’Ucraina e prepararsi all’Africa. Penso che sarà un problema grosso. Come dice il ministro Crosetto, dobbiamo occuparci di Africa perché sicuramente l’Africa si occuperà di noi. La sfera del nostro interesse nazionale, il cosiddetto Mediterraneo allargato, si spinge fino al Sahel. E dobbiamo concentrarci su questo continente, che è quello del futuro ma su cui c’è l’attenzione di tanti: è il momento che l’Italia e l’Europa comincino a farlo seriamente».In Ucraina si combattono tre conflitti. Uno tradizionale di carri armati e artiglieria; uno innovativo di droni e cyber; infine una guerra di disinformazione. Quant’è difficile adeguare l’Esercito a queste realtà?«È difficile ma non impossibile. Non si pensava più a trincee e campi minati: stiamo lavorando, abbiamo attrezzato aree addestrative. Il governo ha preso coscienza del rinnovo dei mezzi pesanti, con fondi per tank e cingolati: non c’era mai stato un progetto così impegnativo ma l’Esercito è stato a lungo ipofinanziato e lo sconta adesso».E sulla parte tecnologica?«Sulla cyber abbiamo una certa tradizione e siamo confidenti di potere contrastare le offese. Abbiamo creato il 9°reggimento Rombo che sintetizza le capacità cibernetiche e quelle per operare nella dimensione elettromagnetica. Per me è una priorità: è la punta diamante del futuro tecnologico dell’Esercito. In quel reggimento c’è l’Unità 23 in cui sono concentrati i cervelli migliori, quelli che hanno la capacità di vedere gli sviluppi e realizzare gli strumenti necessari».I droni sono già ovunque i protagonisti dei conflitti…«Stiamo facendo una sforzo enorme: c’è bisogno della dronizzazione della forza armata. Abbiamo appena chiuso un contratto per equipaggiare due brigate con qualche centinaia di droni. Ne serviranno tanti: vanno distribuiti fino alle unità più piccole ed entrare nel modo di pensare anche al livello tattico».E contro la disinformazione?«Guardi questa mail arrivata sulla mia posta elettronica: è il messaggio di un sedicente soldato russo che scrive in perfetto italiano di combattere in Ucraina per la pace e di amare il nostro Paese... Il problema c’è! Dobbiamo imparare a difenderci, soprattutto sui social, con un’azione educativa per il nostro personale».Si discute di aumentare gli organici e si è parlato di 10 mila persone in più. Bastano?«Ritengo che 10 mila in più non bastino. Il discorso è politico e mi limito alle valutazioni tecniche: penso che ci siano attività che non richiedono soldati con una preparazione lunga come l’attuale. Quali incarichi possono essere affidati a volontari in servizio per un anno? Ad esempio possiamo formarli solo per il contributo alla sicurezza di Strade Sicure. Sono riflessioni collegate alla creazione di una riserva: penso a volontari in ferma breve che poi alimentano la riserva. Ciò permetterebbe di aumentare l’organico in modo meno oneroso».