Corriere della Sera, 12 dicembre 2024
Intervista a Paolo Fresu
Paolo Fresu è nato a Berchidda 63 anni fa. Figlio di un pastore, decide di studiare tromba al Conservatorio di Sassari, dove il maestro gli dà un 3 inappellabile. Allora si trasferisce a Cagliari, sotto la guida di Enzo Morandini, e il resto è storia: un’etichetta musicale (Tuk Music), un festival che dall’88 porta in Sardegna artisti da tutto il mondo (Time in Jazz), un quintetto che ha appena compiuto 40 anni (Paolo Fresu Quintet), un quartetto che di anni ne ha 20 (Devil Quartet), una collaborazione con Uri Caine che va avanti da 22. Oltre ai libri, ai dischi e ai concerti ovunque.
Fresu, dice che il suo ex prof di Sassari se n’è accorto?
«Credo che lo sappia e immagino ci sia rimasto un po’ male. Non l’ho più rivisto. Aveva più o meno la mia età, pretendeva che gli dessi del lei e allora lo pretendevo pure io. Non legammo».
Vive tra Bologna, Parigi e la Sardegna. Dov’è casa?
«Casa per me è famiglia, dunque è quella in collina a Bologna, dove mio figlio Andrea va a scuola, mia moglie (la violinista Sonia Peana, ndr) svolge le sue attività per l’infanzia, e io ho tante relazioni professionali».
Ma il posto del cuore?
«È la Sardegna, il luogo sentimentale del buen retiro dove sai che un giorno tornerai. Dunque Berchidda, dove sono nato e cresciuto, e Alghero, dove è nata Sonia».
Il mare preferito?
«Capriccioli, dove andavo da bambino. Ho imparato a nuotare da grande, so appena stare a galla. Noi di Berchidda non siamo gente di mare, il pesce arrivava una volta alla settimana. Le volte che andavo con i miei genitori erano gite epiche. Ci portavamo la pasta, l’anguria, prima di fare il bagno dovevo aspettare tre ore ed era già il momento di rientrare, un altro viaggio. Odiavo il mare. Oggi amo Cala Banana e il mare di Alghero».
Le sue case cos’hanno in comune?
«Sono tutte molto curate. Anche quando manchiamo per mesi, sembra che siamo andati via il giorno prima. In ognuna c’è un pianoforte, e alcuni libri e dischi uguali».
Per esempio?
«Kind of Blue di Miles Davis e Ballads di John Coltrane. Il libro è Chet di Roberto Cotroneo, che nella precedente edizione si intitolava E nemmeno un rimpianto. L’ho perso più volte, ci ho pure fatto un lavoro teatrale».
Il primo viaggio?
«Per ogni sardo il primo vero viaggio è la traversata in mare per Civitavecchia. Ma ho lasciato l’Italia la prima volta nel 1984, per Nuova Delhi. L’India non era quella di oggi e forse non ero pronto, non parlavo l’inglese, ho anche dovuto pagare il biglietto del mio concerto perché non riuscivo a far capire che io ero quello che suonava. Da nessun’altra parte ho trovato la stessa povertà».
Nemmeno ad Haiti?
«Ad Haiti sono stato con la Fondazione Rava e Paola Turci. Mi ha lasciato un’impressione fortissima. Dovevamo portare i bambini nelle bare di cartone per seppellirli sulla collina. Per me è come una Sardegna tagliata a metà: da una parte ti rosoli sulla spiaggia, dall’altra muori».
Ad Haiti lei e sua moglie avete adottato una bambina a distanza.
«Sì, ci scriviamo, ci manda la pagella. Vorrei andare a trovarla con mio figlio Andrea, magari quando sarà più grande e consapevole».
Andrea la chiama babbo o papà?
«Papà. Da me e dalla madre ha preso la testardaggine; la sua però è raddoppiata. Ma quando diventa caparbietà la considero un pregio».
Non ha mai avuto paura di esporsi politicamente.
«Sono un uomo di sinistra ed è noto. Quando il 15 luglio del 2007 Walter Veltroni mi chiese di fare il coordinatore del Pd in Sardegna, la sua telefonata mi arrivò quasi come una tegola in testa».
Al primo incontro pubblico a Nuoro fece il suo discorso programmatico imbracciando la tromba.
«Eravamo nella Biblioteca Sebastiano Satta. C’erano sindaci, prefetti, politici e curiosi. Scesi dal palchetto e feci una nota con respirazione continua per 10 minuti, circondando tutti. È stato un momento topico, il più concreto: la politica si può fare anche con una tromba».
Nel 2017 ha digiunato per lo ius soli.
«E ricevetti una miriade di insulti. Conservo gelosamente i peggiori. Ho anche fatto un disco dove i titoli dei brani derivano dagli errori più clamorosi degli haters».
Se questo governo le chiedesse una mano?
«Non sarei contrario se potessi rispondere con serietà. Se mi si chiede un consiglio sono sempre pronto a darlo».
Cosa pensa della governatrice Alessandra Todde?
«Non la conosco personalmente, ma ne penso bene. E il fatto che sia una donna è importante: dover discutere sul perché lo sia è già sbagliato. Todde è una donna che vuole ascoltare: non pensa che i sardi siano sempre in credito. Io mi sento in pari: abbiamo anche tanto da imparare dai continentali».
Il suo rito di passaggio?
«L’acquisto della prima casa, sull’Appennino tosco-emiliano. Andai a prendere i miei genitori a Civitavecchia, per fargliela vedere. Per arrivare, si entrava in una strada sterrata in mezzo al bosco. Mia madre volle subito entrare nel vecchio casale bianco per vedere le camere da letto e la cucina. Mio padre rimase fuori a guardarsi intorno, mentre io lo spiavo dalla finestra. Dopo un quarto d’ora, non resistendo più, gli chiesi se gli piaceva. E lui, in sardo, rispose: “Bravo, hai più alberi di me”».
Suo padre non si perdeva una serata di Time in Jazz.
«E commentava: “Questo mi è piaciuto, questo non lo invitare più”. Alla prima edizione, nel 1988, faceva così freddo che lui girava tra il pubblico con un bottiglione di acquavite. Quando è mancato, 10 anni fa, i volontari del festival hanno deciso di tenere vuota la sua sedia».
Chi avrebbe voluto a Berchidda?
«Quando abbiamo cominciato, Miles Davis era ancora in vita, ma non potevamo permettercelo».
Lo ha conosciuto?
«A Terni il direttore di Umbria Jazz voleva presentarmelo, ma io scappai. Lo racconto ora a teatro con Kind of Miles. Chet Baker, invece, venne a farmi i complimenti al Festival Jazz di Sanremo, nell’83, per la mia versione di Round Midnight di Monk. Spero di aver detto almeno grazie, non ricordo».
Se potesse parlare con uno dei grandi scomparsi?
«Louis Armstrong, perché è stato il padre del jazz».
Quest’anno il Paolo Fresu Quintet ha compiuto 40 anni.
«Siamo gli stessi componenti del 1984. Grazie a Dio nessuno è mancato, non abbiamo divorziato, non ci siamo fregati le fidanzate. Quando l’ho fondato stavamo uno a Roma, uno a Milano, uno a Cremona, uno a Bergamo, uno in Sardegna. Mi davano tutti del pazzo. Invece abbiamo inciso decine di dischi e fatto migliaia di concerti».
L’emozione più grande?
«Esistono due tipi di emozione: una è quando ti batte il cuore a mille, un’altra quando provi un turbamento interiore che può portarti al pianto».
Scelga lei.
«Durante il tour dei miei 50 anni, 50 concerti in cinquanta posti diversi in Sardegna, uno lo feci al Cottolengo di Bosa: mi emozionai moltissimo».
E, invece, il cuore a mille?
«Nei grandi teatri, come alla Scala, e durante le dirette tv, quando migliaia di persone che non vedi ti giudicano e tu non puoi sbagliare. Come un 25 aprile, quando suonai l’Inno di Mameli a reti unificate davanti a Mattarella».
Dove vorrebbe suonare?
«Potrei dire la Carnegie Hall, ma io sogno luoghi come Petra, in Giordania, con una storia o una natura così forti che cambia l’energia».
Ha preso due lauree honoris causa, dalla Bicocca e dal Berklee College of Music di Boston. A quale tiene di più?
«Sono entrambe importanti. Ma forse i premi ai quali tengo di più sono la cittadinanza onoraria di Nuoro, il Nettuno d’Oro di Bologna e l’Onorificenza di Commendatore della Repubblica».