Robinson, 8 dicembre 2024
Biografia di Renata Colorni
Un breve racconto di Arthur Schnitzler (Io apparso per le edizioni Henry Beyle) – che si rivelerà essere uno straordinario apologo sulla catastrofe mentale – mi mette in sintonia perfetta con Renata Colorni. Sono ammirato dalla lievità con cui ha tradotto il testo (la stessa che ritrovo nei disegni di Tullio Pericoli che lo accompagna). Come se nelle poche pagine che compongono la novelletta si condensassero decenni di esperienze e intuizioni letterarie, quasi oserei dire un punto conclusivo, meglio un addio a quel mestiere con cui ha incantato i lettori. Da poche settimane Renata ha compiuto 85 anni. Porta con sé la gratitudine e la commozione di chi sente che la vita le ha consegnato da tanto tempo un dono speciale da condividere e da far amare. Se la filologia incontrasse la fede si sarebbero date appuntamento in questo librino di Schnitzler.
Quale delle due componenti è stata più importante?
«Probabilmente la fede, nel senso che ho sempre creduto alla bellezza e alla profondità di un testo letterario. Fede in quel tanto di soprannaturale un racconto o un romanzo posseggono. La filologia, non come disciplina che si insegna ma come pratica quotidiana sul testo, è il soccorso tecnico e storico del quale un traduttore non può fare a meno».
Schnitzler suscita queste sensazioni?
«Penso proprio di sì come, su un altro piano, le provoca Thomas Bernhard».
Iniziando con Freud hai in lungo e largo esplorato il mondo tedesco e austriaco. Ora eccoti qui. Un “resoconto” di nove paginette in cui c’è parte della tua vita.
«Beh, c’è indirettamente Freud, il quale resta sullo sfondo. Schnitzler conosceva le sue opere, tanto quanto Freud leggeva i suoi romanzi».
Una coppia che solo nella Vienna dei primi del Novecento poteva formarsi.
«La verità è che si videro una sola volta. Ma si scrissero. Freud trovava familiari le storie di Schnitzler. Credo che provasse perfino una certa invidia. Dove non arrivava la scienza, poteva arrivare la letteratura. In una lettera del 1922 lo equipara a un ricercatore della psicologia del profondo. Però Schnitzler, nonostante l’ammirazione, temeva che il rapporto lo potesse troppo coinvolgere. Era preoccupato».
Per cosa?
«Credo che un eccesso di identificazione rischiasse di compromettere la sottigliezza o meglio la grazia e l’ironia che fecondavano la sua scrittura».
Hai tradotto tanto e perfino rivisto le altrui traduzioni. Ma perché questo attaccamento a Schnitzler?
«Potrei risponderti che la stessa passione l’ho avuta per Canetti, Bernhard, Mann. Ma Schnitzler ha soddisfatto il mio lato sentimentale. Non dimenticare che comincio la mia attività alla Boringhieri proprio traducendo Freud».
In fondo è il tuo antenato totemico.
«Lo è a tal punto che c’è stata una fase della mia vita in cui dovevo scegliere se continuare il lavoro di traduttrice oppure intraprendere il mestiere di psicoanalista. Alla fine decisi per la traduzione».
Un modo per proteggerti dall’altro.
«Mi affascina l’altro, ma allora non sapevo se avrei retto l’impatto emotivo. Mi commuovo facilmente».
Hai iniziato col tradurre Freud. A distanza di più di mezzo secolo come giudichi quella scelta?
«Ho vissuto Freud come uno scrittore. Per sei anni non ho fatto altro che misurarmi con la sua scrittura. Era un uomo legato alla memoria letteraria del suo tempo e tradurlo è stato una gioia per la mente».
Come arrivasti a Freud?
«Nell’autunno del 1972 ero a Francoforte, per l’editore Franco Angeli, e incontrai Michele Ranchetti che mi presentò a Paolo Boringhieri. Ricordo che pranzammo noi tre insieme. Paolo mi chiese se fossi disposta a lavorare alla Boringhieri».
Alla Franco Angeli che facevi?
«Traducevo testi di psicologia soprattutto dal tedesco. Lingua che mi fu insegnata fin da bambina da mia madre».
Era tedesca?
«Ursula Hirschmann, il nome della mamma, era ebrea berlinese, socialista, che fuggì dalla Germania nel 1933 e si traferì a Roma. Non volle mai separarsi dalla sua lingua di origine e la trasmise alle sue figlie. Ho imparato prima il tedesco e poi l’italiano».
Paolo Boringhieri alla fine del tuo lavoro su Freud ti propose di tradurre tutto Jung.
«Non accettai perché trovavo noiosa la scrittura di Jung. Non sono né una psicoanalista né una pensatrice, sono una traduttrice. Mi identifico con questo mestiere e ritengo la traduzione un lavoro letterario a pieno titolo. Il tedesco di Jung non si prestava».
Ritieni che la lingua italiana si presti alla traduzione?
«Credo di sì, Leopardi ha ragione quando dice che la lingua italiana è adatta alla lingua straniera».
In fondo è vero in generale: siamo un paese che si adatta facilmente.
«Come facilmente si disadatta. Ma per restare a Leopardi c’è quella citazione fondamentale nello Zibaldone: “Il pregio della lingua italiana consiste in ciò che la sua indole, senza perdersi, si può adattare a ogni sorta di stili”».
Una lingua malleabile.
«Sì, soprattutto rispetto al tedesco. Confrontando la mia traduzione di Freud con quella inglese – che aveva il pregio del commento, ma semplificava la lingua – mi resi conto che l’italiano restituiva molto meglio la complessità del tedesco».
Goethe non lo hai mai tradotto.
«No, mi proposero di tradurre Le affinità elettive,ma in quel periodo ero occupata da altro».
Che ti sembra della traduzione del “Faust” di Franco Fortini?
«Anche Fortini era una personalità complessa. Scrittore, saggista che come pochi conosceva la forza della lingua italiana. Ma se posso permettermi un appunto alla sua traduzione è che lui è sempre in primo piano. Posizione che normalmente gli scrittori occupano quando traducono».
Ossia?
«La virtù di dimenticarsi di sé, per entrare nel mondo di un altro, i grandi scrittori è difficile che ce l’abbiano. Prova a leggere le poesie di Ungaretti tradotte da Ingeborg Bachmann. Belle ma sembrano della Bachmann».
Hai mai tradotto poesia?
«Non ce la faccio. In questo campo vige la legge dell’intraducibilità. Zanzotto diceva che ci sono delle poesie tradotte che sono meglio dell’originale. D’accordo,ma sono un’altra cosa».
Sei molto selettiva nello scegliere chi tradurre?
«Per me è fatale che sia così. Seguo ciò con cui mi sento più in sintonia e poi mi piace tradurre soprattutto autori del ‘900».
Riflette il tuo spirito poco convenzionale.
«È stato uno dei pochi privilegi che mi sono concessa. Come sai ho scritto un libretto sul lavoro del traduttore: Il mestiere dell’ombra».
Trovo interessante quanto dicevi a proposito del traduttore che deve dimenticarsi di sé.
«Penso che la capacità di annullarsi davanti a una pagina da tradurre richieda un certo talento. È un nuovo te che affiora con dei tratti masochistici».
Capisco la gioiosa sofferenza, ma è anche un servizio generoso che la comunità letteraria mette a disposizione dello scrittore.
«La generosità bilancia il narcisismo dello scrittore, il quale pensa alla traduzione come a una palestra di scrittura, inferiore alla propria. E quando traduce si avverte chiarissima la sua impronta. In Primo Levi che traduce Il processo di Kafka avverti fortissima la sua presenza. Mentre Giorgio Zampa che traduce Kafka tende ad annullare la propria presenza».
Non hai mai tradotto Kafka. C’è un motivo particolare?
«Il grande desiderio di tradurlo c’è stato, ma anche la paura di non esserne all’altezza. Oggi non avrei più la forza e quando mi è capitato di pensarci sapevo che era un autore che avrebbe richiesto una dedizione assoluta.Avrei bisogno di una seconda vita per affrontarlo».
Che cosa ha di così arduo da farti rinunciare?
«Bisogna stare attentissimi a non ingentilirlo».
Cosa vuoi dire?
«Ti devi guardare dal renderlo simpatico. Ti faccio un esempio. Avevo tradotto per Adelphi L’altro processo, un testo in cui Elias Canetti ripercorre le lettere di Kafka a Felice Bauer (ora quel testo Adelphi lo ha raccolto insieme ad altri lavori di Canetti su Kafka chiamandoloProcessi).È un libro straordinario. Lì mi sono trovata a dover continuamente ritradurre le citazioni di Kafka e mi è sembrato di essere risucchiata in qualcosa di tremendo».
Era un impegno emotivo molto forte?
«Emotivo sì, ma anche letterario».
Leggendolo capisci che non puoi prescindere dall’aspetto ebraico.
«Giuliano Baioni lo ha raccontato come meglio non si poteva».
Secondo te quell’asciuttezza della scrittura che disorienta da dove gli arriva?
«Dalla profondità del suo dolore, da quel male di vivere che lo ha attanagliato. La sua scrittura è fatta per non compiacere il lettore. Ecco perché non puoi farne un autore “simpatico”».
Accennavi anche al sacrificio totale che avrebbe richiesto tradurlo.
«Ho lavorato per 25 anni alla Mondadori dirigendo i Meridiani e prima per 16 all’Adelphi. Ho passato la maggior parte del mio tempo occupandomi della revisione dei testi e della scelta degli autori. Poi mi sono ritagliata un poco di spazio – sia in Adelphi che in Mondadori – per qualche traduzione dal tedesco di grande impegno. Come ad esempio è stato il lavoro di traduzione della Montagna magica di Thomas Mann. Ho impiegato quasi quattro anni. Mica uno scherzetto.
Lavoravo tutto il giorno per i Meridiani e la sera mi occupavo di Mann».
Quando traduci ti accade di rileggere a voce alta?
«Per me è un modo ricorrente di stare nel testo. Ricordo che Luciano Foa all’Adelphi diceva: non disturbiamo Renata che sta recitando il rosario! Leggo tutto a voce alta è così che cerco il ritmo. Così capisco meglio dove si nascondono il superfluo delle parole e le sonorità ridondanti».
Si può migliorare la voce di uno scrittore?
«Diciamo che la puoi ricreare. A me è accaduto con Thomas Bernhard».
Se dovessi definire la “voce” di Bernhard.
«È una specie di filastrocca ossessiva che dà voce alla disperazione del mondo. La sfida è far entrare una voce musicalmente nuova nel nostro patrimonio letterario. Mi è riuscito con Bernhard. Tanto è vero che ci sono scrittori che, per esprimere il loro mondo, si sono appropriati della sua voce».
Ritieni che l’Intelligenza artificiale possa sostituire la figura del traduttore?
«Il sistema dell’algoritmo già consente trascrizioni, più o meno fedeli, da una lingua all’altra. Ma non credo sia possibile per la traduzione letteraria la quale, al di là della statistica, esige una creatività e un’invenzione artistica totalmente autonome».
Il traduttore è più uno scrittore nascosto o mancato?
«Tutte e due le cose. Da una parte c’è l’orgoglio luciferino che lo spinge a confrontarsi con le grandi voci del passato e dall’altro è come se si sentisse protetto da queste voci».
Tornerei infine a Schnitzler, alla novelletta “Io”.
«Sotto l’apparente semplicità della storia c’è una profondità pazzesca. La vita normale di un impiegato che progressivamente trasloca nel delirio. Schnitzler vede qualcosa che si aggira come un animale ferito nella Vienna del primo Novecento».
Cosa esattamente?
«La crisi del linguaggio. Lo scrittore capisce che tra le cose e il nome che esse hanno non c’è più nessun rapporto. La lingua si ammala e sembra rispecchiare la fine di una civiltà letteraria».
Mi viene da pensare che questo Schnitzler sia stato per te come chiudere il cerchio.
«In fondo puoi leggere la mia traduzione come un piccolo manifesto su quanto sia difficile lavorare con le parole. Sono tornata a uno scrittore, come dicevamo, che più di ogni altro è vicino a Freud. Ripenso alla mia prima traduzione di Schnitzler La signorina Else,è quella in assoluto a cui tengo di più. E adesso, in gennaio o febbraio, uscirà un’ultima traduzione: La signora Berta Garlan, sempre di Schnitzler. Con questo ritengo di aver davvero chiuso con il mio lavoro di traduttrice».