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 2024  dicembre 08 Domenica calendario

Il nuovo film di Robert Zemeckis

Il nuovo film del premio Oscar Robert Zemeckis è un viaggio nel tempo. In Here (nelle sale dal 9 gennaio per Eagle Pictures) il regista di Forrest Gump non utilizza però la leggendaria DeLorean con cui portava a spasso Michael J. Fox nella trilogia di Ritorno al futuro (non ci sarà un quarto film, ha dichiarato, ma non gli dispiacerebbe portare al cinema il musical ora in tour negli Stati Uniti). In Here, Zemeckis utilizza solo una macchina da presa. La colloca in un unico punto e da lì mostra il trascorrere dei secoli, dalla preistoria ai giorni nostri. Le origini del mondo e della vita; i dinosauri; gli indigeni; la costruzione di una casa nella quale vediamo vivere diverse generazioni. Si sofferma sulla storia di una coppia che in quella casa trascorre una buona parte di vita: Richard e Margaret. A interpretarli sono Tom Hanks e Robin Wright, di nuovo insieme sullo schermo trent’anni dopo Forrest Gump. 
Per Here, Zemeckis ha riunito la squadra del film del 1994. La sceneggiatura è firmata dal regista con Eric Roth, autore da Oscar dello script di Forrest Gump (gli Oscar vinti furono in tutto sei: film, regia, attore protagonista per Hanks, sceneggiatura, effetti visivi e montaggio). Anche loro due non avevano più lavorato insieme da allora. «Desideravo tantissimo fare un film con Tom, Robin e Eric perché adoro lavorare con loro. Ogni volta che hai l’occasione di lavorare con persone così talentuose e con cui ti sei trovato così bene, lo fai. Abbiamo riunito la band, ma ora ci esibiamo su un nuovo repertorio», racconta a «la Lettura». Tornano anche i collaboratori di sempre: il compositore Alan Silvestri («Autore delle musiche di tutti i miei film negli ultimi quarant’anni») e il direttore della fotografia Don Burgess («Forrest Gump fu il primo di tanti film insieme»): «Siamo sulla stessa lunghezza d’onda e questo rende tutto più veloce e semplice». 
Anche immergersi in una nuova sfida visiva. L’ennesima per Robert Zemeckis. «Nessun altro regista contemporaneo ha usato gli effetti speciali in modo più drammatico e narrativo», ha detto il critico britannico David Thomson. Gli esempi sono tanti: la piuma nel finale di Forrest Gump e le scene in cui Forrest/Tom Hanks interagisce con personaggi reali, da Kennedy a John Lennon; l’incontro tra attori in carne e ossa e animazione in Chi ha incastrato Roger Rabbit; e la motion capture (personaggi digitali ottenuti captando i movimenti degli attori) di Polar Express...  Here unisce l’innovazione e la fascinazione di Zemeckis per il tempo: «La realizzazione stessa di un film è un viaggio nel tempo. I film raccontano storie trasportando gli spettatori nel tempo». Il nuovo film lo fa stando sempre nello stesso luogo. Il «qui» del titolo. 
Here è l’adattamento di una graphic novel di Richard McGuire, Qui (nella traduzione italiana uscita nel 2015 per Rizzoli Lizard). L’impianto è lo stesso: una stanza viene mostrata sempre dalla stessa inquadratura. Sfogliando le pagine si viaggia nel tempo. La stanza cambia, vediamo cosa accade a chi la vive, ma anche ciò che è avvenuto prima che fosse costruita. In collegamento su Zoom dalla California, è proprio una casa la prima cosa che Zemeckis cita: la sua abitazione toscana, a Castelnuovo Berardenga, vicino a Siena. Casa che, vedremo, è stata di grande ispirazione. 
Come ha scoperto la graphic novel di Richard McGuire?
«Mi fu consegnata dal mio agente e me ne sono innamorato. Da un punto di vista formale ho subito visto il film che avrei potuto farne».
Quando ha coinvolto Eric Roth, Tom Hanks (con cui ha lavorato in «Cast Away», «Polar Express» e «Pinocchio») e Robin Wright (che ha diretto in «Beowulf» e «A Christmas Carrol»)? 
«C’è un bellissimo documentario girato in Italia, The Truffle Hunters (regia di Michael Dweck e Gregory Kershaw, prodotto da Luca Guadagnino sulla ricerca del tartufo d’Alba, in Piemonte, ndr): ogni scena è composta da un’unica inquadratura. Ne parlai con Tom Hanks, anche lui lo adorava e mi disse: perché non facciamo un film con quello stile? Così citai la graphic novel di McGuire che non riuscivo a togliermi dalla testa. La lesse la sera stessa sul suo Kindle e la mattina dopo mi disse: è favolosa, dobbiamo farci un film. Mentre provavo a capire come acquisire i diritti ricevetti una telefonata da Eric. Gli inviai il libro chiedendogli di dargli un’occhiata. Il giorno dopo disse: facciamolo! Scriviamolo insieme! È iniziata così. Tom era d’accordo con l’idea, poi quando gli abbiamo inviato la sceneggiatura ha subito deciso di partecipare. Volevo coinvolgere anche Robin e pure lei ha subito detto sì». 
Come avete lavorato alla sceneggiatura? 
«L’idea di un’unica prospettiva da mantenere per tutto il film lo rendeva sì interessante ma anche una grande sfida. Dovevamo capire come mostrare l’intero universo che cambia attorno a quell’unico punto prospettico. Ci siamo chiesti quale storia potessimo raccontare: naturalmente la nostra. Non nello specifico, ma una storia che appartiene alla nostra generazione. E quella è diventata la cornice a cui abbiamo appeso tutto il film. Un lavoro lungo ma molto divertente».

Il film propone un mosaico di storie. Il cuore sono Richard e Margaret. Si innamorano da adolescenti negli anni Sessanta, lei rimane incinta e, da adolescenti, si sposano e vanno a vivere nella casa dei genitori di lui. Qui affrontano i problemi e le tribolazioni che la vita comporta. I sogni infranti, le preoccupazioni finanziarie, la voglia di affermarsi, di andarsene o di restare. La vita e la morte. Tom Hanks, Robin Wright, ma anche Paul Bettany e Kelly Reilly (i genitori di lui) interpretano i personaggi da quando sono molto giovani fino agli ottant’anni. Per farlo avete lavorato con lo studio di effetti speciali Metaphysic e vi siete affidati all’intelligenza artificiale che ha elaborato centinaia di immagini d’archivio per ringiovanire e invecchiare gli attori...
«Intelligenza artificiale è un termine che oggi significa qualunque cosa. Nel nostro caso è un’elaborazione che mi piace chiamare digital makeup. L’abbiamo usato per invecchiare gli attori così come per ringiovanirli (durante le riprese avevamo uno schermo che restituiva direttamente l’immagine rielaborata). Ma, in modo simile a quando si indossa una protesi di plastica, l’aspetto essenziale è la performance. Il makeup digitale ti può ringiovanire, ma se non reciti in modo adeguato la performance non è credibile. Devi recitare da giovane perché il trucco giovanile funzioni. Tutto è nelle mani degli attori». 
L’Ia può quindi essere un alleato della creatività umana?
«Lo è. Cinque anni fa non avremmo potuto fare questo film, non avremmo avuto le tecnologie per aiutarci a realizzarlo. Ma con tutte le tecnologie bisogna fare un compromesso. Le nuove scoperte fanno paura. È sempre stato così: all’inizio le persone temevano l’elettricità e avevano paura dei treni... Dobbiamo semplicemente analizzare la situazione e capire quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi. Una volta che qualcosa è stato inventato non si può disinventare».
Avete unito diverse storie in un puzzle e poi avete dovuto renderle visivamente. Anche questa una sfida? 
«Ci è voluta una vita intera nel cinema per sapere come realizzare questa storia. Quando scegli di riprendere lo scorrere dei secoli da un’unica prospettiva, ogni singola scena deve poter funzionare all’interno di quella singola inquadratura. Sembra semplice, ma far sì che ogni scena funzioni per ogni personaggio nelle diverse epoche, lo rende il set più complicato che si possa immaginare». 
Il centro del viaggio nel tempo di «Here» è la casa (o, meglio, il suo salotto). Viene mostrata durante la costruzione nel 1907; negli anni Venti quando ospita la famiglia di un aviatore; dal 1945 quando i genitori di Richard l’acquistano fino a quando lui la vende nel 2005 e poi dal 2015 al 2021, abitata da una nuova famiglia. Infine la ritroviamo vuota. Ma con sé porta l’eco delle vite che lì hanno vissuto... 
«La mia casa in Italia è un bellissimo casolare in pietra di seicento anni. In America tutto è moderno, la cosa più vecchia che puoi trovare nell’Est ha trecento anni. Così quando sono in Toscana, mi siedo e penso a tutte le persone, le famiglie e le vite che sono passate tra quelle mura in questi sei secoli. E la vita di ciascuno ha le sue sfide, i suoi drammi e le sue gioie. L’idea era che la stanza fosse essa stessa un personaggio. La casa cambia proprio come avviene con le persone. Magari l’esterno rimane lo stesso ma l’interno cambia e parecchio. Come nella mia casa: man mano sono stati aggiunti l’impianto idraulico, l’elettricità, il riscaldamento. Cambia l’arredamento. Ma l’impronta della casa rimane la stessa».
L’inquadratura è unica, al suo interno ci sono movimento e profondità di campo. Come nella graphic novel, appaiono pannelli che sovrappongono fatti avvenuti in epoche diverse... 
«Abbiamo creato un puzzle e il libro ci ha guidati nel modo in cui presentare le diverse scene. I pannelli si sono rivelati un interessante e potente mezzo cinematografico. L’apparizione del pannello inizia a portare l’attenzione verso la scena successiva che da lì a pochissimo conquisterà l’intera inquadratura». 

Anche gli avvenimenti storici entrano nel racconto privato. Li vediamo scorrere fuori dalla finestra, entrare in soggiorno attraverso la televisione, la musica, i discorsi che ospita. Nella casa entra il Covid; dopo l’omicidio di George Floyd, il padre della famiglia nera che abita lì in quel periodo spiega al figlio come comportarsi nel caso in cui venisse fermato dalla polizia. La storia può essere raccontata attraverso le vicende personali di ciascuno di noi?
«Credo proprio di sì. La cosa interessante in questo discorso è un aspetto su cui io ed Eric abbiamo discusso molto. Dato che mostriamo tutto da un unico punto di osservazione, il salotto di una casa, i discorsi che dovevamo inserire nel film dovevano appartenere a quella specifica stanza. Non potevamo costruire una storia in cui avremmo avuto bisogno di un dialogo che si sarebbe dovuto svolgere in camera da letto. E questo ha reso il racconto ancora più intimo». 
«Qui siamo stati felici», dice Richard ormai anziano. «Qui». Un luogo in cui passare tutta la vita e da cui tutta la vita è passata. In un cerchio che vediamo scorrere sullo schermo... 
«Il cerchio della vita è il termine perfetto. L’idea che vogliamo trasmettere attraverso il film è proprio questa: tutto cambia, tutto è un continuum. Le nostre vite si muovono lungo un arco e ogni cosa si connette in quest’unico processo che si chiama evolvere».