La Lettura, 8 dicembre 2024
Biografia di Harry Benson, fotografo dei presidenti
Le foto di Harry Benson sono icone di un’era: la battaglia con i cuscini tra i Beatles, Robert Kennedy a terra dopo gli spari che lo uccisero e sua moglie Ethel che con la mano si fa scudo dalle foto, Martin Luther King alla marcia per James Meredith in Mississippi, Frank Sinatra e Mia Farrow al leggendario Black and White Ball di Truman Capote... Benson ha scattato immagini di straordinaria intimità a ogni celebrità della nostra era, alternandole a reportage sulla carestia in Africa o sul conflitto israelo-palestinese. Enormemente versatile, gli interessava tutto quello che fa la Storia. Alcuni suoi lavori sono conservati alla National Scottish Portrait Gallery di Edimburgo e alla Smithsonian Gallery di Washington.
Nato a Glasgow, Scozia, 95 anni fa, Harry ricevette dal padre zoologo la prima macchina fotografica, che due settimane dopo lasciò al monte dei pegni per comprarsi una bella giacca. Ma si fece comunque le ossa nella competitiva Fleet Street a Londra, lavorando come fotografo per il «Daily Express»: è per quel giornale che seguì i Beatles in America nel 1964. È stato con la rivista «Life» dal 1970 al 2000. Ha seguito 12 presidenti americani, da Eisenhower a Trump: lavoro al quale è dedicata ora una retrospettiva di oltre 150 foto, in mostra a Washington fino a maggio.
Harry Benson non ha perso lo spirito competitivo, tanto che a un recente gala a Manhattan sua moglie Gigi ha evitato di farlo sedere accanto a un amico fotografo. Harry e Gigi si sono conosciuti a un ricevimento a Houston, dove lui era inviato a fotografare il principe Filippo; lei, giovane debuttante texana, era stata costretta ad andarci dai genitori. Si sono sposati nel 1967 e da allora Gigi organizza il suo archivio e la pubblicazione dei suoi libri. È lei ad aprirci la porta del loro appartamento e a liberare Daisy, un carlino, e Tillie, un bassotto, che saltellano, instancabili, mentre parliamo.
Il primo presidente che ha fotografato?
«Truman», dice Harry. Ma interviene Gigi per spiegare che le foto sono andate perdute. Il «Daily Express» le mise in un magazzino, entrava acqua dal tetto e si è ammuffito tutto. Quindi, il primo è Eisenhower. «Vabbé – commenta Harry – ma non sto qui a dire: “Dove sono le mie foto di Truman...”. Non sono mica Gesù».
E com’era Eisenhower?
«Un gentleman».
Bisogna essere pragmatici. Una cosa fondamentale per un fotografo era (ed è) l’accesso: poter salire sull’aereo del presidente, pranzare con lo staff (e non guastava se ti offrivano un bicchiere di cherry). «Era anche un loro modo per conquistarti». Ma è grazie all’accesso che Benson si trovò a pochi passi dal senatore Bobby Kennedy, fratello di JFK, quando gli spararono. «Non ho mai preso alla leggera» fotografare i presidenti, dice, perché «qualunque cosa può succedere. Bobby non era presidente, lo sarebbe diventato, ma non ha avuto un domani. C’è sempre la sensazione, con un presidente, che potrebbe essere l’ultima volta che è vivo. E io ero molto consapevole che ogni giorno poteva essere l’ultimo».
Ethel, la moglie, è morta da poco.
«Incredibile che abbia vissuto così a lungo, andò in mille pezzi quando accadde davanti ai suoi occhi».
Lei nascose il rullino nei calzini, perché temeva che glielo portassero via.
«Il problema è quando la sicurezza entra nel panico. Picchiarono i fotografi... I miei ricordi sono pieni di grida: della moglie, di persone che non sapevano nemmeno che stavano gridando. Una cosa infernale, ma sei un professionista e preghi Dio di farti fare il tuo lavoro».
Lei dice che Bobby, quando un giorno vi incontrerete, capirà. Ethel ha capito che doveva scattarle quelle foto?
«Non era arrabbiata», interviene Gigi. «Sua figlia Kerry è diventata una nostra cara amica, siamo appena stati al suo 65° compleanno e le uniche persone che ha nominato nel suo discorso sono state sua figlia, il fidanzato della figlia e Harry...».
Cosa pensa degli attentati a Trump?
«Che forse non è finita. Qualcuno potrebbe riuscirci la prossima volta».
Le foto scattate quel giorno a Butler sono iconiche: il proiettile che sfiora Trump, il pugno alzato.
«Vorrei averle fatte io».
Lei ha fotografato Trump più di chiunque altro: una volta con un milione di dollari tra le braccia nel 1990 al casinò Taj Mahal. In un documentario a lei dedicato, «Shoot First», Trump definisce il suo lavoro «incredibile». Poi aggiunge: «Finché mi fa apparire bene, io sono contento». Com’è fotografarlo?
«Costruiva palazzi, cercava di farsi pubblicità e alla stampa piacciono le persone che si vantano, aiutano a rendere un servizio interessante. Ma non riesco a prenderlo sul serio come presidente».
Molti credono che i fotografi non pensino, racconta nel documentario, perciò passate inosservati e ascoltate...
«Il fotografo deve essere vicino. Ci sei o non ci sei. E senti tante cose, sì, ma non puoi parlare, altrimenti attiri l’attenzione sulla macchina fotografica, che può avere un effetto simile a quello di una pistola».
Ci sono stati momenti in cui non è riuscito a esserci?
«Li ho dimenticati». (ride)
Com’era fotografare i Kennedy?
«Avevano stile, fascino. E non si poteva fare una foto senza Jackie. Tutti la amavano. E questo aiutava Jack. Ma si capiva subito se Jackie era infelice, se aveva avuto problemi col marito, se litigavano: non riusciva a nasconderlo. Mi piaceva fotografare anche Nixon: non aveva glamour, ma faceva cose politicamente importanti: in India, in Urss, in Cina... Forse Kennedy sarebbe stato il presidente più pericoloso. C’era un certo machismo in lui... Ho amici russi che erano preoccupati che facesse qualcosa di stupido. Ma questa è solo l’opinione di un fotografo».
Per la cover di «Vanity Fair», fotografò i Reagan che danzano (la rivista andò a ruba e si salvò dalla crisi). Ronald guardava l’orologio: «Il presidente del Cile mi sta aspettando...». Ma Nancy: «O Ronnie, lascia che aspetti», perché le piaceva la canzone che lei aveva messo: Frank Sinatra che cantava «Nancy with the Laughing Face».
«Erano una coppia politica e di bell’aspetto. E lui era davvero divertente quando raccontava una storia, non come tanti che credono di esserlo e ti ritrovi ad ascoltarli con un sorriso di circostanza».
Il bacio dei Clinton: Bill aveva vinto le elezioni, stavano per trasferirsi alla Casa Bianca. Lei chiese a Hillary di avvicinarsi all’amaca e lei baciò il marito. Stanno per baciarsi, ma non si baciano: straordinario.
«Lui era un bravo ragazzo, ma aveva un cattivo carattere: una volta lo fotografai mentre gridava contro lo staff... Doveva stare attento con Hillary. Era una dura. Lui faceva quello che diceva lei: “Guarda da questa parte, sorridi...”».
Quando le viene chiesto com’erano i presidenti che ha conosciuto, lei replica spesso: un gentleman. Lo erano tutti?
«Obama no, era arrogante, freddo».
Consigli per la futura prima donna presidente degli Stati Uniti?
«Emulare la regina d’Inghilterra. Parlava con tutti e a tutti i livelli della società. E non si sapeva mai da che parte stava».