La Lettura, 8 dicembre 2024
Parla il cardinale Carlos Castillo Mattasoglio
Attraversare il Perù consente un cortocircuito spazio-temporale che non si conclude con il ritorno a casa: un attraversamento meraviglioso di ambienti e cuori, dal quartiere universitario ai barrios più poveri, dove anche la mistica claustrale si spende por la calle. Pensiamo alle Nazarenas, monache carmelitane che mettono a tavola ogni giorno centinaia di persone, anche bambini che uscendo da scuola non troverebbero a casa un pasto caldo e sarebbero costretti all’accattonaggio; pensiamo alla movida di Barranco e all’eleganza di Miraflores e San Isidro (i quartieri più in vista di Lima), alla quotidianità modesta di Pukarà e di Juliaka, sulle rive di quel lago Titicaca che il turismo di massa non è ancora riuscito a depredare. Passando per Arequipa, la città bianca; Cuzco, capitale dell’antico impero incaico, dove i segni della conquista spagnola sono intrecciati alle vestigia di stupefacenti culture precolombiane; Puno, dove il male d’altura (soroche, lo chiamano i locali) diventa metafora di una vertigine che non è solo fisica, ma spirituale.
Una periferia del mondo che – come altre – chiede alla nostra presunzione eurocentrica un diritto di cittadinanza sempre più pieno. L’invito a mettere al centro della visuale di uomini e donne (prima ancora che dei credenti) proprio le periferie geografiche ed esistenziali, è quello che una delle voci forse più autenticamente politiche dei nostri tempi – quella di Papa Bergoglio – condensa nel suo ministero. E che si traduce in azioni concrete che non lasciano dubbi sulla volontà di recuperare, nel dialogo con la contemporaneità, la radicalità evangelica.
In questa direzione si muove certamente la scelta di nominare Carlos Castillo Mattasoglio (attuale arcivescovo di Lima) tra i cardinali che siedono per la prima volta nel Concistoro del 7 dicembre. Lo avevamo incontrato per un’intervista proprio su queste pagine nel periodo della pandemia. Un anno prima, la sua nomina ad arcivescovo, come successore del molto discusso cardinale Juan Luis Cipriani Thorne, era giunta con la forza di un terremoto ecclesiale. Oggi torniamo a dialogare con lui per non sedersi (come sarebbe invece nell’etimologia di concistoro!) da questo lato del mondo.
Come ha accolto la notizia della nomina a cardinale?
«Forse è difficile crederlo, ma questa notizia mi è giunta inaspettata. Pur consapevole del rapporto di fiducia che mi lega a Papa Francesco, ho sempre avuto ben presente la sua spiazzante creatività, perciò non ho mai considerato il mio ruolo all’interno della Chiesa latinoamericana come un presupposto della porpora, anzi. Il sentimento che prevale è quello di una grande responsabilità: un passo avanti nell’impegno della testimonianza. Si tratta di approfondire una strada che a me sembra profondamente evangelica: è mentre cammina con i discepoli che Gesù sperimenta diversi modi di farsi prossimo, e mai in maniera precostituita. Si tratta piuttosto di “fare il cammino camminando”, ascoltando, prendendosi cura e non imponendo modalità dall’alto. Questo significa anche non mettere a tacere ciò che spinge in avanti la riflessione, implica capacità di adeguarsi al dialogo con la realtà, per sua natura mutevole. Senza tornare a forme del passato, ma andando ogni volta, coniugando fedeltà e creatività, al fondamento. Andare in profondità, al fondamento, senza fondamentalismi. E il fondamento, per chi crede, è che Dio ama questo mondo: così occorre che anche noi continuiamo ad amare il mondo, pure nelle sue forme più difficili e inattese».
Nella lettera che il Papa ha inviato ai futuri cardinali rivolge loro l’invito a incarnare queste tre attitudini: «Occhi aperti, perché il tuo servizio richiede di ampliare lo sguardo e dilatare il cuore; mani giunte, perché ciò di cui la Chiesa ha più bisogno – insieme all’annuncio – è la tua preghiera; piedi nudi, per toccare la durezza della realtà di tanti angoli del mondo frastornati dal dolore e dalla sofferenza». Una novità di postura che inverte la dialettica di inferiore e superiore: il titolo che caratterizza il cardinale (eminenza, letteralmente «colui che sovrasta, che si distingue») si tramuta in quello di servo (diacono). Come risuona in lei questo invito?
«Mi sembra in linea con il rovesciamento di prospettiva richiesto alla Chiesa per superare molte ambiguità, comprese quelle che sono state terreno fertile per gli abusi. Che sono prima di tutto – va tenuto presente – abusi di potere, a tutti i livelli. Ma il clericalismo, che il Papa ha definito “una perversione della vita ecclesiale”, è un male antico, percepito fin dall’inizio anche da Gesù: i Vangeli sono chiari su questo. Un termine con cui il Maestro si rivolge ai discepoli è oligopistoi, solitamente tradotto “gente di poca fede”. Ma considerando la formazione di altre parole greche strutturate in modo analogo, il termine va inteso in un altro senso: Gesù rimprovera i discepoli perché credono “nella fede dei pochi”, cioè in quella dei gruppi farisaici e della classe sacerdotale, che dominavano le persone senza essere assolutamente coinvolti nella loro storia. È la fede di un’élite esclusiva ed escludente che aveva sostituito Dio con il sommo sacerdote».
Questo è il tema che lei sviluppa nel contributo al volume «Una Chiesa postclericale» (con Roberto Maier e Gemma Serrano, Castelvecchi, 2024). Torna alla mente quanto affermava Michel De Certeau: un’autorità non può pensarsi al singolare, ma deve riconoscersi come uno dei termini di una combinazione plurale, manifestando che essa non è senza altri. E se la preghiera cerca l’incontro con Dio, l’appuntamento è sempre fissato sulle terre dell’uomo. Questa difficoltà a pensarsi «con l’altro» è presente anche nella società peruviana?
«L’individualismo, inoculato in Perù anche da una cultura liberista seguita alla stagione del presidente Alberto Fujimori, è entrato nella nostra fede, aprendo la strada a una religione al singolare, il cui primo obiettivo è la propria salvezza. Ma un’“autorità plurale”, che autorizzi alla libertà, considera la fede una dimensione inclusiva di quanto di buono c’è nell’umanità. L’esclusività genera presunzione di giustizia: proprio questo è il presupposto dello scandalo, dell’essere pietra d’inciampo».
Non è tanto importante, quindi, rafforzare posizioni, ma inaugurare processi, che prevedano anche un cammino a fianco della società, per mettersi al suo servizio. Colpisce molto il suo ripetuto invito a uscire – sul piano della fede – dalla logica del merito, da cui non è facile rimanere indenni. Quali passi può compiere la Chiesa in questo senso?
«Il cambiamento va orientato all’annuncio di un amore gratuito: non è un buon genitore quello che vincola l’erogazione dell’amore alla condotta del figlio. Questa sembra invece ancora oggi, all’interno della Chiesa, una notizia sconcertante: in realtà ciò dipende dal fatto che abbiamo talvolta frainteso il Vangelo, interpretandolo sulla base delle categorie contrattualistiche del do ut des e, in tempi più vicini, non abbiamo colto il senso delle istanze del Concilio. Volgersi solo al passato fa male alla Chiesa, perché la blocca, la sclerotizza. È calandosi nel presente per guardare al futuro che essa trova il suo senso: nell’aiuto a un mondo diviso, che sembra risucchiato in una spirale di follia orientata all’autodistruzione. Mentre deve denunciare profeticamente le strutture del male, la Chiesa deve anche annunciare un bene che fa meno rumore, o che comunque, se alza un grido, lo fa a favore dell’umanità ferita, bisognosa di sostegno non paternalistico, di testimonianza. Soprattutto per le persone che percepiscono il mondo come regolato unicamente dalla legge dell’utile, del cinismo, dell’abuso e della manipolazione. Mali che hanno proliferato anche all’interno della Chiesa e che vanno denunciati senza timore: è la denuncia, non il silenzio e la copertura, a dare credibilità al messaggio».
Questa nomina a cardinale porta il segno dell’opzione preferenziale per i poveri, proposta già dal suo maestro e amico Gustavo Gutiérrez, che ci ha lasciato il 22 ottobre. La sua grande intuizione è stata quella dell’importanza della sintesi dell’impegno sociale, umano, con la fede: non solo un problema umano di carità, ma un problema strutturale, politico. Come sottolinea Severino Dianich in un suo recente intervento, iniziative e istituzioni destinate al soccorso dei poveri non sono mai mancate nella Chiesa, ma la problematica era impostata esclusivamente sul piano morale e personale. Solo alla fine dell’Ottocento, con Leone XIII, s’iniziò a elaborare una dottrina sociale. È però con la teologia della liberazione (il libro di Gutiérrez è del 1971) che si passa dal considerare lo statuto etico, sociologico e politico del povero all’affermarne lo statuto teologico. Fu un modo di tenere viva nella Chiesa, nonostante critiche e ostilità, la consapevolezza che l’impegno per la liberazione dei poveri da condizioni di indigenza e talora di degrado spirituale, è parte essenziale della missione. C’era però da sradicare il timore diffuso che sostenere i diritti dei poveri apparisse, in anni in cui era ancora fortissima la tensione fra mondo occidentale e mondo comunista, come un gettarsi tra le braccia della lotta di classe. Gutiérrez dovette difendersi non solo dalle diffidenze dell’ex Sant’Uffizio, ma anche da attacchi degli ambienti più tradizionalisti della Chiesa, oltre che dai grandi poteri economici che percepivano la forza nascosta che quel pensiero era in grado di suscitare.
«È vero: se non esiste comunicazione con i poveri come soggetti ecclesiali, il dialogo con la vulnerabilità resta mutilato. I poveri sono interlocutori privilegiati, non oggetti della nostra carità paternalistica. Possiamo certamente affermare – ancora con Dianich – che senza Gustavo non ci sarebbe stato Papa Francesco. Oggi la nostra riflessione prosegue verso una più approfondita teologia della rigenerazione, a tutti i livelli. Non si tratta solo di rinascere, ma di essere “generati di nuovo”, considerando tra l’altro l’importanza – confermata dalla scienza – dello stadio pre-natale, in cui siamo stati nutriti in totale gratuità. L’umanità va rigenerata nella prospettiva di far scoprire l’amore gratuito come fondamento dell’esperienza umana. Condividendo ciò che si ha, non solo economicamente, ma anche culturalmente, si creano legami liberanti di umanità, proprio nei sistemi di vita – anche nella nostra realtà peruviana – dove l’ambizione del monopolio e l’intrigo economico producono ancora troppa povertà. Questa è una sfida che non può essere tacciata di facile e miope ottimismo. È una speranza da alimentare anche nelle nuove generazioni, per non portare l’umanità sull’orlo del precipizio».
In Perù colpisce molto vedere come l’educazione e l’istruzione siano considerate ancora uno strumento potente di riscatto sociale soprattutto per le fasce più povere: cogliere l’entusiasmo negli occhi dei ragazzi, un patto educativo tra scuola e famiglie, fondato su norme di convivenza condivise, un certo orgoglio della conoscenza, porta a considerare quanto invece nella scuola italiana si stia affievolendo quell’eros della cultura che si accende solo per sprazzi brevi e puramente volti all’utile, al guadagno facile.
«Educazione e formazione sono temi caldi anche da noi: le differenze sociali hanno un peso notevole sulla possibilità o meno di accedere all’istruzione. Ma attraverso politiche di integrazione autentica – che stiamo cercando di portare avanti anche come Chiesa – si può fare molto. È essenziale far comprendere ai giovani che la cultura – quella che non ha paura del dialogo con le differenze – rende liberi, risponde, cioè, proprio alla sete dell’uomo, ma che è anche fatica, impegno, confronto. Un compito non facile, soprattutto in una società forgiata dalla mentalità imposta da conquistatori a tutti i livelli, politici ed ecclesiastici, che ha fatto fatica a maturare il senso dell’autentica libertà. Certo – in questo la globalizzazione, anche quella virtuale, ha il suo peso – non mancano neppure da noi, proprio nelle scuole, fenomeni di violenza e bullismo, che stiamo cercando di contrastare generando il senso della responsabilità, e direi anche della gioiosa consapevolezza di far parte di una comunità che educa e si educa, e cammina alla ricerca di unità nella diversità: fiumi diversi che confluiscono, alimentandosi l’uno dell’altro».
Cogliamo in questo incontro l’eco dell’invito che già don Tonino Bello, grande profeta di pace del nostro tempo, rivolgeva a entrare «nelle vene della storia», in un tempo in cui – questo inverno della ragione e del senso – «alla borsa valori le quotazioni della solidarietà sono quelle più in ribasso».