la Repubblica, 8 dicembre 2024
Renato Zero canta i suoi idoli
È appena finito il tour Autoritratto — I concerti evento, 38 date in tutta Italia, e Renato Zero già riparte. Stavolta con due nuove canzoni già proposte durante il tour: due cover di pezzi giganteschi, Redemption song di Bob Marley e Sorry seems to be the hardest word di Elton John, con un testo riscritto in italiano e intitolate rispettivamente Resta accanto a me e S ilenzio che lo sguardo tuo parla per te, pubblicati già sulle piattaforme e su un 45 giri in vinile. Due brani che anticipano un album che «uscirà con calma» e conterrà rielaborazioni di classici di David Bowie, Stevie Wonder, Lou Reed, Whitney Houston, The Four Seasons, Eric Burdon & The Animals, Nat King Cole, Frank Sinatra e tanti altri. Zero annuncia un secondo volume.
Ha passato la vita a essere un idolo: adesso ci fa scoprire i suoi, di idoli.
«Da giovane avevo un amico, ufficiale di marina, che dai suoi viaggi all’estero mi portava scatoloni di dischi che qui era difficile trovare. Scoprivo Armstrong, Dean Martin, Sarah Vaughan, artisti magari lontani dai gusti di un adolescente che amava il rock’n’roll. Quella roba però me la sono riportata in dote. La musica è una puttana meravigliosa che si concede a tutti con generosità».
Ha però riscritto tutti i testi.
«Ci tenevo a dare a queste opere un vestito a mia misura. Tradurre letteralmente sarebbe stato sbagliato: volevo essere il più Renato possibile. Il copia e incolla è un’operazione inutile, tanto vale ascoltare gli originali. Ho avuto l’opportunità di rendere il dovuto omaggio a queste voci. Sono ansioso di scoprire le reazione che susciterà questa mia appropriazione».
Cosa intende?
«Vedo che di questo patrimonio incredibile che è la musica non si sfrutta più l’ampiezza. Io mi affaccio al repertorio internazionale, ma anche la nostra musica non è supportata per essere ancora fruita dai più giovani. Le radio dovrebbero passare ancora De André, Tenco, Bindi, tutti quegli artisti che hanno reso importante la canzone italiana. Chi vuole fare musica dovrebbe misurarsi con i grandi capolavori come Il cielo in una stanza o La canzone di Marinella ».
Lei ha ricantato Elton John e David Bowie, che hanno affinità con gli inizi della sua carriera. Li ha mai incontrati?
«Bowie purtroppo no, ma mi ha fatto sentire meno solo, non soltanto per l’estetica ma anche per il coraggio. Anche lui vestiva panni molto eccentrici: siamo appartenuti a noi stessi, alla nostra fantasia, a un’onestà professionale che impedisce di copiare. Elton invece l’ho incontrato tre o quattro volte, a un certo punto voleva che andassi in tour con lui ma le date non coincidevano. È stato il primo a darmi la liberatoria per i diritti del brano, mi ha sempre stimato».
I suoi concerti sono ancora un evento collettivo: la vicinanza tra lei e il suo pubblico è fortissima.
«Le confesso una cosa: non amo più gli stadi. Non riesco ad avere quel contatto stretto e necessario con la gente. Fare un tutto esaurito in un palazzetto è un grande vantaggio per un musicista, perché l’emozione arriva forte, la dimensione raccolta facilita. Lo dico a tutti: non allontaniamoci dal pubblico, più l’artista è vicino più ti tatua addosso l’emozione. Le 100 mila persone che faccio in cinque giorni è come se me le portassi tutte a letto».
Ha rappresentato un simbolo di libertà e di autodeterminazione. Dopo tanti anni, cosa pensa di poter rappresentare?
«Rappresentare se stessi è il programma. Se capisci te stesso, se sei realizzato con la tua musica, le iniziative, hai saputo ciò che dovevi sapere e questo il mio pubblico lo avverte. Ho dato a queste persone la possibilità di svelarsi, farsi vedere con i difetti e i pregi. Tutti, anche le persone più umili, si sono sentite accarezzate. Oggi la povera gente non ha più tutele: non ci sono modelli da seguire».
Oggi un giovane artista accetterebbe di esibirsi per un solo spettatore come fece lei?
«Se ci penso, a distanza di anni da quella serata al Folkstudio, il 24 dicembre del 1973, mi commuovo ancora. Se solo potessi descrivere la sensazione che si prova, ma è la lezione più forte che ho superato a pieni voti. Ero giovane, sentivo la responsabilità di appagare la curiosità anche di un solospettatore. Poi si è presentato la sera dopo con venti persone: ho capito che il passaparola sarebbe stato la mia forza. La musica è una vocazione, bisogna essere pronti ad affrontare tutto. Non è solo un momento commerciale».
Anni fa cantava “Dietro questa maschera c’è un uomo e tu lo sai”. Cosa vede ora davanti allo specchio alla fine dei suoi concerti?
«Sento tanta stanchezza bella, appagante, se non sei stanco vuol dire che non hai dato tutto. Il camerino è un luogo sottovalutato, per me è l’attesa durante la quale vengono fuori gli anni, gli eventi, una sfilata inconsapevole di situazioni, di incontri. Un po’ come la sacrestia di un sacerdote, il camerino mi aiuta ad affrontare il pubblico e quello che rappresento, che è alla fine è me stesso».