la Repubblica, 8 dicembre 2024
L’incubo siriano di un nuovo Califfato sul Mediterraneo
Le ultime ore di una dittatura sono sempre avvolte da un clima tragico di incertezza. Il despota cerca di capire cosa stia accadendo; chi gli sia fedele e quali carte possa ancora giocare. A Bashar al-Assad ne rimangono poche. E soprattutto gli resta pochissimo tempo. Le insurrezioni nei sobborghi di Damasco si moltiplicano e le avanguardie ribelli sono nella periferia della capitale. L’armata della coalizione sunnita ha però bisogno di riorganizzarsi: in otto giorni si è spinta a oltre 300 chilometri dalla roccaforte di Idlib, lasciandosi alle spalle nuclei di resistenza che non hanno deposto le armi. Inoltre deve accumulare forze sufficienti per dare l’assalto a Damasco e impedire che la caduta si trasformi in una resa dei conti generalizzata. Se le truppe raccolte a Damasco non lo abbandonano, Bashar al-Assad potrebbe quindi avere almeno trentasei ore per negoziare una via d’uscita che salvi la sua famiglia, la comunità alawita a cui appartiene e impedisca al Paese di tracimare nel caos. Gli iraniani che vedono a rischio la loro presenza in Siria lo spalleggiano e fanno trapelare la sua disponibilità a cambiare la costituzione per dare spazio alla maggioranza sunnita.Molti pensano che sia una missione impossibile: il raìs siriano ha perso l’occasione tre giorni fa, quando ha respinto la richiesta di Erdogan di cedere il potere a un governo di transizione. Adesso sembra tardi. Il dittatore può fare leva solo sulla paura: dei suoi, che non hanno più vie di fuga sicure da Damasco, e quella crescente dei Paesi confinanti.Tutti, a partire da Israele, temono che la Siria cada nelle mani di Abu Mohammed al Jolani, l’artefice della coalizione sunnita che ha travolto il regime in undici giorni. Il leader jihadista ha imparato dagli errori di Osama Bin Laden e del suo maestro Abu Musab al- Zarqawi, rispettivamente fondatori di Al Qaeda e Isis, e non vuole incutere terrore: si presenta come un moderato, promettendo una gestione del Paese che includerà ogni etnia e ogni religione. Ad Aleppo i suoi uomini hanno rispettato le altre comunità e rilasciato i soldati catturati, applicando subito il metodo di efficienza amministrativa messo in campo da anni a Idlib: i servizi pubblici funzionano meglio di prima. Ma la sua legione di mujaheddin è formata da reduci della guerra santa e sulla via per Damasco si è gonfiata di uomini molto meno disciplinati, assetati di vendetta:l’ingresso nella capitale potrebbe trasformarsi in un bagno di sangue.Le schiere di al Jolani finora si sono impadronite delle città più importanti: con Damasco avranno il dominio dei centri nevralgici di un Paese dove i sunniti sono maggioranza. C’è chi crede che il leader voglia costruire un modello innovativo di Stato islamico, meno feroce e più inclusivo ma comunque fondamentalista, in cui le altre confessioni verranno progressivamente emarginate. E la sua vittoria potrebbe in ogni caso riaccendere i focolai jihadisti oltre il confine, in particolare in Iraq, in Giordania e in Egitto, oltre a creare un bastione coranico che dal Golangià minaccia Israele.Per questo adesso c’è la corsa ad accelerare la decomposizione della Siria, tentando di creare contrappesi all’avanzata di al Jolani. È il destino probabile per la regione di Latakia, dove un milione di alawiti si stanno armando e possono contare sulla protezione russa: Mosca ha lì le basi strategiche nel Mediterraneo a cui non intende rinunciare. La difesa di questo territorio però non è facile: i ribelli sono a 40 chilometri dall’aeroporto russo di Hmeimim e la flotta resta ormeggiata a largo di Tartus per difendersi dai micidiali droni ucraini degli insorti. Ed ecco che un patto con i sunniti appare come l’unica speranza di sopravvivenza.Nell’estremo sud, sul confine giordano, una ribellione guidata dai drusi con i gruppi tribali sunniti ha preso il distretto di Daraa: i drusi siriani sono più di 700 mila. Hanno detto di stare dalla parte di al Jolani, ma cercheranno di imporre una loro zona autonoma imitando i cugini libanesi guidati dal clan Jumblatt.L’altro cantone è quello curdo, già diviso in due. C’è il Rojava presidiato dalle milizie del Ypg. E c’è più a sud la provincia strappata all’Isis tra Raqqa e Deir ez-Zor dalle Syrian Defense Forces equipaggiate dagli Usa. I curdi sono combattenti ostinati ma il loro futuro è precario. Erdogan vuole espellerli dalla regione sulla frontiera turca, usando i giannizzeri del Syrian National Army e l’aviazione. Inoltre il messaggio diffuso ieri da Donald Trump – «questa non è la nostra guerra» – fa prevedere tempi duri per i curdi che potrebbero perdere il sostegno dei jet Usa. Corsi e ricorsi storici: la situazione complessiva ricorda molto quanto è accaduto nel 2013. Anche allora la guerra civile aveva aperto un vuoto spaventoso, dal quale era emerso con ferocia il mostro dell’Isis