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 2024  dicembre 08 Domenica calendario

Appunti sulla sindrome del cervello marcio

Non mi sento reazionaria, è da qualche giorno che ci penso e ho concluso di no: fra le pochissime certezze che resistono al sempre benefico seppur faticosissimo esercizio del dubbio in cui abito (Sarò io? Sarà colpa mia? Un tormento di ipotesi di colpe) c’è questa. Rara, nitida. No, non sono un’adulta reazionaria. Ora non c’è tempo di portare qui le prove, fidatevi – ci sarebbe anche uno storico da consultare ma capisco che è fatica – fidatevi del mio stesso dubitare. È perciò con insolita allegria, figlia di quella rara certezza, che dissento con sicurezza da Francesco Piccolo, il quale con lo stile sempre brillante che contraddistingue il suo scrivere e parlare, dunque pensare, ha pubblicato qui martedì una lunga critica alla parola dell’anno secondo l’Oxford dictionary.“Brain rot”, il cervello delle moltitudini che marcisce, si deteriora, va in pappa a causa del consumo indefesso di “materiale online banale o poco stimolante”. Sono sicura che sia così e ne ho le prove, dirette e indirette. Sono certissima che no, non è andato in pappa anche il cervello di chi nelle generazioni che ci hanno preceduto ha letto ossessivamente Guerra e pace o ha guardato Alberto Lupo fumare in tv nellaCittadella, eppure curava i malati di tisi, gli fumava in faccia. Va invece in malora la capacità cognitiva di chi non conosce il silenzio, nemmeno per un minuto nemmeno per sbaglio, di chi si addormenta e dorme tutta la notte con gente che parla o canta in cuffia, di chi mentre traduce, lavora, studia, fa l’amore o sta parlando con te intanto sta anche guardando uno schermo o più d’uno, rispondendo – scusa, è urgente – a un messaggio, alla polemica del giorno, sta mettendo likealreel dei coccodrilli che gli ha mandato qualcuno che conosce appena ma fa ridere, bisogna interagire subito.Ci sono gli studi, i lunghi esperimenti svolti dapersone interessate alla materia: c’è quello bellissimo di qualche anno fa che mostra come fra chi sta facendo qualcosa e ha il telefono accanto, chi ha il telefono vicino ma silenzioso e chi non ce l’ha proprio, è in un’altra stanza, sono questi ultimi a svolgere il compito meglio e più velocemente perché il telefono è come una fuga di gas permanente: è un buco da cui l’attenzione scappa via e no, l’attenzione non si moltiplica come per l’amore dei figli. L’attenzione, se devi concentrarti e qualcosa o qualcuno ti interrompe, si divide.Vorrei anche dire che non mi sento più intelligente, sempre per rispondere a Francesco, né migliore di nessuno tra i miei più giovani conviventi e conoscenti ai quali anzi ogni minuto chiedo scusa per quello che non capisco e che non so. Non credo affatto che siano – i nativi digitali – menomati rispetto a me, anzi. Chiedo loro sovente assistenza e sostegno, li ascolto con sincero interesse verso un mondo ignoto, non c’è niente di più bello che imparare quello che non sai. E anche io come Piccolo mi autodenuncio: vado a letto con il telefono, vedo i video cretini che l’algoritmo mi ammannisce, nel mio caso bambini spiritosi, principesse gentili e intellettuali saccenti, e mi addormento così. È anche, il telefono, il primo oggetto che prendo in mano al risveglio. Per vedere che ore sono, certo, e per leggere le notifiche notturne, spesso delle banche.Tuttavia anelo i giorni in cui posso non usarlo, spegnerlo, dimenticarlo ed è anche per questo che amo così tanto il teatro. Li vedo, a teatro, quelli che si illuminano di blu in platea, e mi dispiace per loro: per il gusto esclusivo che si perdono.Aggiungo, per concludere, che è colpa nostra – quindi pensa se mi sento migliore. È colpa anche mia – il tormento delle colpe – se le cosestanno così. Le nuove generazioni sono nate e cresciute nel mondo che noi abbiamo apparecchiato per loro, e il mondo è questo. Se il telefono si spegne si spengono loro. Aspettano che torni il campo, la carica, la linea: aspettano inerti, accasciati e immobili, desolati.È colpa nostra, anche mia e un poco di Francesco Piccolo, se non siamo stati capaci di opporci a questa idea di vita in cui non esiste l’attesa, non esiste l’assenza, non esiste il desiderio. È tutto sempre saturo, è tutto sempre ora. Certo, era difficile. Come le multinazionali del farmaco hanno deciso come dovevamo curarci, le multinazionali dell’internet hanno deciso cosa dovevamo volere per essere popolari. Da soli, a mani nude, era difficile.Però assente è un sostantivo che nasce da un participio presente, quello che manca sta mancando ora: è quel che ci muove stamani.L’assenza è sorella del desiderio, noi desideriamo solo quello che non c’è. Anche il latte, se è finito, la mattina. Quindi aver saturato e reso ridicola e insopportabile l’attesa, aver desiderato di eliminare la frustrazione e il dolore – lo stress! – aver lavorato per dare ai ragazzi tutto subito (non frustrarli, non deluderli, non generare ansia né infelicità) saturando i loro bisogno li ha resi più fragili, non più forti. Non abbiamo ridotto le loro angosce, le abbiamo moltiplicate: i dati, anche questa volta, sono lì. È nel vuoto che si genera il desiderio. La capacità di immaginare qualcosa che lo colmi.Ma vale anche per noi, adulti smarriti in cerca di consenso. Non è mai quello che lo accresce ciò che vale. È quello che lo erode, semmai. Non è quello che ti conviene: è quello che costa e che non rende. Anche qui: ci sarebbe uno storico da consultare, esempi semplici tutto attorno a noi, ma è fatica. Facciamo che ci siamo capiti.