Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 11 Mercoledì calendario

I conti in rosso dell’Iran, a credito con la Siria

Pochi giorni prima dell’attacco del 7 ottobre la guida suprema iraniana Ali Khamenei aveva annunciato in un discorso pubblico che lo Stato di Israele sarebbe presto «morto di rabbia». Mai profezia fu più sbagliata, a distanza di un anno e un paio di mesi lo Stato ebraico è più vivo che mai e grazie alla rabbia scatenata dal 7 ottobre tutti i principali alleati di Khamenei sono stati annientati. Hamas, Hezbollah e per ultimo, come contraccolpo, la Siria di Assad, la cui disintegrazione rappresenta per l’Iran non solo un grave danno strategico ma anche una perdita economica considerevole.
Nei giorni scorsi l’ex deputato iraniano Bahram Parsaei ha chiesto notizie di quei 30 miliardi di dollari di debito che la Siria aveva contratto con Teheran e che peraltro non erano nemmeno mai stati approvati dal Parlamento come prevede la costituzione iraniana. «Qual è il destino di quell’enorme quantità?», ha chiesto il riformista Parsaei. Una bella domanda dal momento che l’Iran non sta certo vivendo il suo periodo migliore nemmeno dal punto di vista economico, con un’inflazione che si aggira intorno al 34% (ma che aveva raggiunto a inizio anno addirittura il 47%) e un deficit del 6% del pil. Una domanda tuttavia che ha una sola risposta, quei soldi che le Guardie della Rivoluzione avevano fornito alla Siria sotto forma di petrolio (da 70.000 a 80.000 barili al giorno) Teheran non li vedrà mai più. Non c’è alcuna possibilità che Al Jolani possa o voglia onorare un debito che peraltro rappresenta attualmente il triplo del Pil della Siria e quasi il 10% di quello iraniano. Teheran sta cercando disperatamente di mantenere aperti canali di dialogo. Il ministero degli Esteri ha affermato domenica di aspettarsi che i legami tra Teheran e Damasco rimangano forti sulla base di un approccio «lungimirante», ma prima della caduta di Assad, Al Jolani e i suoi erano per l’Iran semplicemente dei terroristi.
Un concetto che è stato ribadito ieri da Ribal Al Assad, cugino dissidente di Bashar, secondo cui anche gli occidentali sanno benissimo che il leader di HTS è stato membro dell’Isis e tirapiedi di Al Qaeda e che il rischio è che la dittatura sia stata rimossa «solo per essere sostituita da un regime teocratico» proprio «come accaduto in Iran 45 anni fa». Le parole di Ribal vengono confermate anche dalla presenza tra i liberatori di Damasco di almeno dieci super ricercati francesi per terrorismo alcuni dei quali membri della brigata di Omar Omsen, uno dei più pericolosi jihadisti francesi in circolazione. Ma per l’Iran evidentemente questa è una questione secondaria rispetto a quello che la perdita che l’alleanza con la Siria significa per il regime. Una situazione che rischia di mettere alle corde Khamenei il cui fallimento totale della sua strategia non è più giustificabile, nemmeno agli occhi dei più fedeli collaboratori.
Un recente sondaggio condotto da una società affiliata al ministero della Cultura e pubblicato dal quotidiano riformista Ham- Mihan ha rivelato che il 92% degli iraniani è insoddisfatto dell’attuale «traiettoria del Paese», e un terzo di loro è arrivato ad affermare che «la situazione è irreparabile». Stavolta il malessere è potenzialmente più esplosivo che negli anni passati perché non riguarda solo una parte della popolazione, come poteva essere ad esempio il caso della questione dell’hijab. Lo stesso sondaggio rileva infatti che i problemi più urgenti per gli iraniani sono i prezzi elevati (81,9%), la disoccupazione (47,9%), la dipendenza dalle droghe (26,9%), la corruzione (13,1%), la carenza di alloggi (12,1%). La questione dell’hijab arriva solo sesta con l’11,9 per cento.
La scintilla che potrebbe innescare eventi incontrollabili capaci di portare il regime al collasso, così come aveva preconizzato qualche settimana fa il premier israeliano Benjamin Netanyahu, rischia di arrivare dalla fine dei sussidi di Stato grazie ai quali la benzina in questi anni è costata ai cittadini solo due centesimi di dollaro, praticamente gratis. A inizio mese il presidente Masoud Pezeshkian ha fatto presente che tali sussidi costano 130-140 miliardi di dollari all’anno, il 30% del Pil, e in quanto tali non sono più sostenibili. Le proteste del 2019 furono innescate proprio dall’aumento del prezzo del carburante e si trasformarono poi in una protesta più allargata contro lo stesso Khamenei. La rivolta fu repressa nel sangue (si parla di 1.500 civili morti), ma all’epoca il regime e le Guardie della Rivoluzione erano un’altra cosa, Israele non si era ancora arrabbiato.