Avvenire, 11 dicembre 2024
Il tiro alla fune in Georgia tra Oriente e Occidente
Itre giorni del centravanti decideranno il futuro dell’ex calciatore Mikheil Kavelashvili e quello di un intero Paese che dalle basse coste del Mar Nero alle gole del Caucaso sembra strattonato tra Oriente ed Occidente. Il 14 la Georgia avrà un nuovo capo di Stato, e nelle piazze che da Tblisi alle altre città ogni notte tengono svegli i governanti, il nome di Kavelashvili non piace.
Ma la piazza di città non è la campagna, dove, al contrario dei grandi centri il partito di maggioranza, ha incassato il maggior numero di preferenze, e la Georgia appare in ostaggio delle influenze esterne come dei veti incrociati interni. Nessuno sa come uscirne. «Piazza per la libertà», recitano i cartelli degli improvvisati chioschetti dove vengono offerti ai manifestanti e ai giornalisti caffé bollente e tavola calda. Anche le chiese ortodosse rimangono aperte di notte, per dare un riparo a chi protesta e pregare che a Natale arrivi almeno la promessa che il viaggio verso l’Europa non venga interrotto. Il governo di “Sogno Georgiano”, la formazione politica accusata d’essere radioguidata dal Cremlino, fuori dall’ufficialità dice che non intende interrompere i rapporti con l’Ue ma solo rallentare il processo di avvicinamento a Bruxelles, e che le minacce di sanzioni non aiutano la ripresa del dialogo. «Mosca occupa buona parte dei nostri confini – osserva una fonte della diplomazia ufficiale georgiana che chiede di non essere citata –, non è possibile pensare di fare a meno della Russia e non vogliamo fare la fine dell’Ucraina, molto più grande ed economicamente più solida di noi, irritando i russi». E allora perché annunciare la sospensione del negoziato per l’ingresso nell’Ue? «Quando ci hanno contestato il risultato elettorale abbiamo reagito in modo impulsivo – riconosce il diplomatico vicino al governo – ed ora siamo prigionieri delle nostre parole». In altri termini, cedere ai manifestanti a questo punto sarebbe come dichiarare bancarotta. C’è un altro dettaglio a spiegare perché il premier Irakli Kobakhidze tenga duro e faccia il duro. L’Unione europea e le commissioni di valutazione del voto non hanno ancora espresso un parere definitivo sulle elezioni del 26 ottobre. Due diverse fonti diplomatiche di altrettanti Paesi europei a Tblisi confermano ad Avvenire che in effetti sono emerse «anomalie» che richiedono una sostanziale «riforma tecnica e normativa» delle modalitàdi voto. Ma le alterazioni riscontrate «non sarebbero sufficienti» a dichiarare l’invalidità dell’elezione. Finché una valutazione non sarà messa nero su bianco, l’ambiguità presterà il fianco all’inquietudine delle folle ponendo l’Europa davanti a un dilemma: confermare l’esito elettorale significherebbe sconfessare le manifestazioni; dichiararne l’invalidità innescherebbe la repressione. Un vicolo cieco: «Se dovessi dirla da politico e non da diplomatico – spiega uno dei due funzionari internazionali – la sintesi sarebbe questa: qualcuno ha tentato di compiere un furto, ma non ce n’era bisogno».
I ragazzi che a migliaia ogni notte lanciano fuochi d’artificio contro il Parlamento, incendiano bare a simboleggiare il governo in fumo, e non di rado finiscono in galera o al pronto soccorso – spesso entrambe le cose nella sequenza inversa – hanno perso l’interesse per queste ricostruzioni. Oltre 400 dimostranti arrestati, un centinaio di giornalisti fermati e denunciati, alcune decine di attivisti picchiati dalle squadracce su cui la polizia sembra non riuscire a fare chiarezza, sono un bilancio che viene brandito per sostenere l’inadeguatezza dell’esecutivo e l’inclinazione alla repressione.
Da questa sera potrebbe andare peggio. Il 14 la presidente Salomé Zourabichvili, che ha assicurato di non volersi barricare in ufficio, lascerà l’incarico. Non intende forzare la legge, ma teme che possa farlo il suo successore. Negli ultimi giorni da capo dello Stato continua ad accusare il governo per gli abusi sui manifestanti e la Russia per il tentativo di riprendere il controllo su Tblisi.
Perciò la protesta sta lentamente cambiando forma. E non è detto che sia una buona notizia. La presenza dei tithusky, come vengono chiamati i picchiatori a volto coperto che negli ultimi giorni hanno aggredito giornalisti e attivisti, ha spinto la piazza finora piuttosto disorganizzata, a darsi delle regole. Cominciando dalle squadre di autodifesa. Volto coperto e pugni chiusi nei giacconi, vanno in cerca delle squadracce. Alcuni sono poco più che ragazzini, ma la Georgia è un Paese nel quale quasi tutti gli uomini in età da voto hanno svolto il servizio militare. E può bastare un niente perché una scazzottata diventi l’innesco per una battaglia urbana che giustificherebbe la mano pesante della polizia antisommossa. È quello che molti osservatori temono. Dai confini a Nord arrivano messaggi chiari spediti da Mosca perché Tblisi intenda. Nei giorni scorsi la Russia ha sospeso l’erogazione degli assegni sociali, a eccezione delle pensioni, e imposto un prezzo di mercato per l’elettricità fornita all’Abkhazia, secondo il modello ben consolidato nei decenni con altri Paesi disobbedienti alla sua autorità. Dalla capitale Sukumi, parzialmente riconosciuta dalla comunità internazionale e dichiaratasi indipendente con l’appoggio e la protezione delle forze armate russe, ultimamente erano salite lamentele per le politiche del Cremlino, arrivando a parlare di «schiavitù politica». L’Abkhazia è al buio, in seguito alle proteste che hanno portato al ritiro del pacchetto di leggi per il via libera a investimenti russi nella regione inclusa entro i confini della Georgia ma di fatto sotto il controllo di Mosca.
A Tblisi sanno cosa questo può significare e anche nell’opposizione, divisa e frammentata, fanno i conti con i propri proclami. Nel 2023, già al secondo anno di guerra ucraina, la dipendenza della Georgia dalle importazioni di petrolio e idrocarburi gassosi dalla Russia e dall’Iran era aumentata del 16,54% spendendo speso 131 milioni di dollari il 18% in più del 2022. E il consuntivo del 2024 non sarà migliore. È notte fonda quando le ronde di autodifesa rientrano sul viale Rustaveli, davanti al Parlamento chiuso e blindato. Di picchiatori dicono di non averne incontrati. Uno spilungone vestito di nero va in giro arringando gli altri, meno di un centinaio. Una sciarpa gli copre il viso, gli occhialini da nuoto per scampare ai fumogeni e all’identificazione delle telecamere di sorveglianza. «Niente tathusky. Si staranno preparando per prenderci di sorpresa domani