Avvenire, 11 dicembre 2024
Reportage dallo Yemen
Hodeida ( Yemen). Ahmed Ahmed Yahya Abdu Jarad si tira su la maglietta gialla e mostra uno squarcio suturato lungo il costato. Intorno a lui si ammassano i colleghi pescatori, puntando alla ferita, qualcuno gridando che anche lui ha qualcosa da mostrare. Al mercato del pesce della città di Hodeida, chi parte per andare al largo sa che rischia grosso. Potrebbe non tornare più, come è accaduto al fratello di Ahmed, Wahbullah, morto nella stessa spedizione in cui Ahmed è rientrato ferito. «Ma bisogna partire, altrimenti non si mangia», specifica Abdullahh Anash Annahari, il direttore del mercato all’ingrosso. La paga per un giorno di pesca è una miseria: mille, millecinquecento riyal yemeniti pari a un minimo di un dollaro e mezzo a un massimo di due dollari e mezzo, a seconda della fluttuazione della valuta. Va meglio se ci si spinge al largo per battute più impegnative, con pesci di dimensioni maggiori: squaletti e pesci spada, molto richiesti al mercato dai grandi compratori e dai ristoranti della capitale. Il rischio a cui ci si espone è rilevante. Ahmed ci dice che dal 1980 al 2017 ha lavorato con profitto in questa città di mare, con il porto più importante del Nord Yemen: «Il business era in società con mio fratello e mio figlio lavorava con noi: avevamo un paio di barche, a seconda del tipo di battute di pesca da fare.
Ma quell’anno, nel 2017, al largo, siamo stati attaccati da un aereo da guerra saudita: loro sono stati uccisi, io mi sono salvato. Sono rimasto in mare tutta la notte e mi hanno trascinato qui il giorno dopo, alle dieci del mattino, appena in tempo per essere salvato in ospedale. Ci ho messo un po’ a ritornare in mare, e non più al largo. Sono rimasto traumatizzato». Ahmed, in realtà, della pesca non voleva proprio più saperne e ha avuto la malaugurata idea di provare a emigrare illegalmente in Arabia Saudita, per passare all’agricoltura: ma è stato arrestato al confine e, alla prima esperienza, ne ha aggiunto una seconda che preferisce dimenticare. In questo mercato del pesce, affollato e chiassoso come sono tutti i mercati del pesce del mondo, e dove i venditori salgono a turno su un piedistallo per procedere all’asta del pescato del giorno per il migliore offerente, c’è il timore palpabile di essere scambiati per contrabbandieri di armi dalla marina dei Paesi vicini. A Mohammed Mahmoud Hassan Hamid è successo e pure in giovane età. Ha 25 ed è disabile: sostiene di essere stato arrestato dalla marina sudanese, alleata dei sauditi, mentre pescava in acque yemenite, due anni fa. «Eravamo in undici, quando ci hanno catturati e ci hanno messo in prigione per sei mesi. Siamo stati esposti a colpi di arma da fuoco durante l’arresto. I primi tre mesi non sapevamo dove esattamente ci tenessero prigionieri, poi ci hanno trasferito a Khartum. Qui siamo stati torturati brutalmente e non ci è stato permesso di comunicare con le nostre famiglie. Siamo sempre stati accusati di essere membri della milizia Houthi, mentre siamo solo pescatori e non abbiamo nulla a che fare con tutto ciò che sta accadendo nello Yemen. Dio mi è testimone».
Mohammad sembra sincero e non pare abbia una particolare propensione alla violenza: ma qui a Hodeida il mare non serve solo per pescare. In questi anni le forze lealiste e i loro alleati (sudanesi, sauditi, emiratini) sostengono che Hodeida sia stato il centro di smistamento di vari dispositivi militari, compresi gps e componentistica per droni dall’Iran allo Yemen. Non ci sarebbe da stupirsi se qualcuno tra questi pescatori avesse fatto un’altra scelta, a fronte di un guadagno più alto di due dollari al giorno. A Hodeida si vede che l’economia ha ripreso a girare. La città, rispetto al 2016, in cui era quasi totalmente distrutta, ha recuperato il suo volto originale: la vita è pulsante in ogni sua parte e i ristoranti sono pieni. Ma gli storpi e i mendicanti abbondano più che dieci anni fa e l’ingresso della città da Sud è sempre funestato da quel che resta dell’arco monumentale di benvenuto. Le fabbriche locali di tonno, sardine e yogurt, bombardate nel 2016 dai sauditi, non sono mai più state ricostruite, nonostante un’altra azienda produttrice di bevande, la Dali Food Industries Complex, sia sorta nella zona industriale, assediata dai cementifici e dalla produzione chimica di lubrificanti.
Il segno inequivocabile di una nuova era in corso è dato dagli immensi manifesti a centro carreggiata, con i necrologi di Sinwar, Nasrallah, Hanyeh: come a Sanaa questo è il segno tangibile dell’impegno del partito al governo – Ansarullah – nella guerra regionale ma con una sfumatura locale in più. Rispetto ai suoi omologhi di Sanaa, il governatore di Hodeida Mohammed al-Hulaisi non si preoccupa di apparire più sofisticato. Resta ligio alle sue origini tribali.
Indossa la mawaz, la tradizionale gonna maschile, i sandali, e si presenta, prima di entrare della sede circolare del governatorato della città, su un pick-up non proprio tirato a lucido, e con giovani guardie del corpo armate fino ai denti. Il suo discorso trasuda fedeltà alla famiglia al-Houthi e rimarca l’orgoglio di essere responsabile del governatorato chiave di questa ultima fase della guerra: «Hodeida è il governatorato più strategico dello Yemen e noi di Hodeida e Tihama siamo solidi al fianco del leader della rivoluzione in tutte le sue scelte strategiche, politiche o militari. Stiamo formando un fronte unico per affrontare l’aggressione “Prosperity Guardian” della Coalizione a guida statunitense: è un’aggressione brutale che mira a distruggere lo Yemen con tutte le sue componenti sociali e di vita». Il governatore al-Hulaisi racconta di vittime civili di bombardamenti ed, effettivamente, circa 24 ore dopo la nostra visita, la Coalizione colpisce la costa Sud. Muore un agricoltore colpito mentre guidava l’auto ma il target è il porto militare dove gli Houthi custodiscono rampe di lancio di missili e dotazioni navali. A noi è dato visitarlo con molte limitazioni temporali e operative: possiamo solo osservare la centrale elettrica andata a fuoco un mese fa in un bombardamento israeliano e riprendere a distanza la Galaxy Leader, la nave commerciale di proprietà israeliana, gestita dai giapponesi e diretta in India, sequestrata dalla milizia yemenita il 19 novembre del 2023. I 25 membri del suo equipaggio, principalmente filippini, ma anche ucraini, rumeni, bulgari e messicani, sono stati presi in ostaggio e non è dato sapere dove siano detenuti.
Sulla nave sventolano le bandiere palestinese e yemenita e viene effettuato un continuo pattugliamento delle forze speciali intorno al sito. Il governatore ci mostra il grosso e grasso bottino con un certo orgoglio personale ma ha un moto di disappunto quando nota che sulla nave manca qualcosa e si affretta a scusarsi: «Una settimana fa abbiamo deciso di innalzare sulla Galaxy anche la bandiera libanese ma i miei ragazzi se lo sono dimenticato». Ci rassicura: «Rimediamo subito