il Giornale, 11 dicembre 2024
L’ingiustizia infinita del caso Primavalle
L’immagine di Virgilio, carbonizzato davanti alla finestra, non si può dimenticare. Nemmeno dopo cinquantuno anni. E molti italiani la conservano, in un angolo della memoria. Così la foto, scattata in altro momento, del fratellino Stefano, sorridente col grembiule e il fiocco, che rimanda a un’Italia povera, in bianco e nero, ferma agli anni Settanta. Stefano e Virgilio Mattei, due vittime della ferocia ideologica, ma nate dalla parte sbagliata e dunque a lungo rimosse, abbandonate al loro destino di morte, tradite – bisogna pur dirlo – da una giustizia balbettante.
Fa impressione sapere che Antonella Mattei, sorella di quei due ragazzi, è rimasta impigliata in una coda degli infiniti procedimenti civili ancora aperti e dovrà risarcire, lei, 50mila euro agli eredi di uno dei legali degli imputati. Sarebbe fin troppo facile parlare di giustizia al contrario o capovolta, una giustizia che si accanisce su chi ha già subito sofferenze inaudite ed è stato costretto a superare una linea che in ogni paese normale non si dovrebbe mai oltrepassare.
E invece la vicenda del rogo di Primavalle mette insieme il peggio della nostra storia, veleni e tracotanza intellettuale a coprire un orrendo misfatto.
Quella foto, quella che tutti noi abbiamo visto e rivisto con muto orrore, viene scattata la notte del 16 aprile 1973, nel quartiere popolare di Primavalle a Roma.
L’appartamento di Mario Mattei, ex netturbino e segretario della sezione Giarabub del MSI, viene incendiato. Qualcuno ha versato cinque litri di benzina attraverso la porta e ha dato fuoco. Dovrebbe essere un atto dimostrativo, finisce con una strage. Il capofamiglia, la moglie e quattro dei sei figli si salvano rocambolescamente, qualcuno con gravi ferite dopo essersi lanciato dalle finestre del terzo piano della modestissima casa. Virgilio e Stefano non ce la fanno: il più grande tiene stretto il più piccolo, lì davanti alla finestra, ma i soccorsi non arrivano in tempo. Virgilio muore in piedi, come una statua, Stefano scivola subito dietro di lui.
In breve, la sinistra extraparlamentare accerta la verità. Sono stati alcuni militanti di Potere operaio a compiere il massacro. Valerio Morucci, poi passato nelle Brigate rosse, punta la pistola alla testa di Marino Clavo e si fa raccontare come è andata. Ma naturalmente la narrazione resta confinata in quell’ambiente e anzi comincia la solita campagna di disinformazione che addebita la responsabilità dell’eccidio alla destra, dilaniata da fantomatiche faide.
La magistratura individua infine tre presunti colpevoli: Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo. Il primo viene arrestato, gli altri due scappano all’estero. Il processo si chiude con una sentenza che grida vendetta: assoluzione per insufficienza di prove, anche se l’accusa aveva chiesto l’ergastolo.
A questo punto taglia la corda pure Lollo, aiutato da un network di amici e relazioni importanti. A difendere i tre scendono in campo i big dell’ intellighenzia: Dario Fo, Franca Rame, Soccorso rosso, Alberto
Moravia, il Messaggero della famiglia Perrone. Alla fine si arriva a una condanna, del tutto virtuale, a 18 anni per omicidio colposo che il terzetto non sconterà mai.
Sulle vittime nemmeno una parola. Erano dall’altra parte, la pietas per loro non c’è. Bisognerà attendere le celebrazioni del cinquantennale, nel 2023, per trovare le istituzioni compatte nel riconoscimento di un dolore senza confini e di una verità terribile e semplice, lontanissima dai depistaggio messi in atto per lunghi decenni nel tentativo di salvare i colpevoli. «Sono gli anni – afferma Meloni in quell’occasione – dei cattivi maestri e dei nemici da abbattere».
Gli anni delle menzogne vendute come controinformazione. Poi nel 2005, Lollo dà un’intervista al Corriere della sera in cui ammette tutto. Erano in sei, fra di loro anche una nipote dei Perrone. Ma ormai la pena è prescritta e il caso è chiuso, anche se la procura di Roma sulla base dei nuovi elementi prova ad aprire un’inchiesta bis per strage che puntualmente si arenerà. Restano i processi civili: Antonella Mattei vince un round da 923 mila euro, ma perde su un fronte collaterale: avrebbe deragliato attaccando l’avvocato Antonio Tommaso Mancini, legale di Lollo. Pagherà cinquantamila euro e la prossima udienza, fissata per l’anno prossimo, sarà quella del pignoramento. Dopo mezzo secolo però nessuno le ha ancora chiesto scusa per aver bruciato vivi i suoi fratelli.