Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 11 Mercoledì calendario

Biografia di Nicola Piovani

«La musica è pericolosa», diceva Federico Fellini. E lo dice anche Nicola Piovani, compositore, pianista e direttore d’orchestra con una lista lunga così di premi in carriera – il più citato, l’Oscar per le musiche di La vita è bella – che quella frase del grande regista l’ha presa a prestito come titolo del suo libro appena ripubblicato da La nave di Teseo, dopo dieci anni in cui «si era perso nelle misteriose serpentine dell’editoria italiana». Il racconto appassionato e ironico di una vita intrecciata in maniera indissolubile alla musica.
Perché la definisce pericolosa?
«Mi riferisco alla pericolosità gioiosa che c’è negli incontri profondi con la bellezza. Musicale ma non solo: anche la bellezza d’arte, la poesia, la narrativa. Anche un innamoramento adolescenziale. Tutti incontri che hanno in comune un indotto meraviglioso: il batticuore».
Che musica le dà il batticuore?
«La musica bella e nuova, quella che mi stupisce: ricordo ancora la prima volta che sentii Prokofiev, a 14 anni. Ora per esempio ho scoperto un compositore egiziano che mi ha reso euforico, Abdel Wahab».
Va ancora alla scoperta di nuovi compositori?
«Certo, alla radio, nei concerti dal vivo, in rete. Mi piace cercare un guizzo: solo nei rapper non ne ho mai trovati».
Nel libro dice anche di ascoltare giovani cantanti pop, più per tenersi aggiornato che per reale interesse, ammette.
«Angelina Mango mi diverte. Molti altri mi annoiano: non ci trovo nulla che non abbia già sentito, ma fatto meglio».
Cos’è oggi la musica per lei?
«Un meravigliosa lingua asemantica, priva di contenuti e ricca di informazioni emotive, che mi mette in contatto con il prossimo: sia quando suono per un pubblico, sia quando in mezzo al pubblico entro in sintonia col musicista che suona».
Come quando, ragazzino, racconta di essersi perso trasognato nell’ascolto del Rigoletto e avere guadagnato le proteste di sua madre…
«Io e mio fratello Nino non avevamo il lusso di un libretto, dovevamo attentamente capire le parole dalla voce dei cantanti. Arrivati al meraviglioso “Veglia o donna”, l’emozione era tale che alzammo un po’ il volume della radio a valvole per immergerci di più nel canto. All’apice della commozione, una voce nell’altra stanza gridò: “E abbassa ‘sto miserere!"».
Anni dopo invece Monicelli le darà scherzosamente del «musicista mortaccino»…
«Il Marchese del Grillo è stato il primo film commedia che ho musicato. Mi aveva voluto Monicelli a tutti i costi, sfidando la diffidenza dei produttori e dello stesso Sordi. Perché io ero un po’ conosciuto, ma per aver musicato film d’autore. Quando il film e la musica ebbero un gran successo, col suo sarcasmo fraterno mi disse: “Non sei contento che ti sei scrollato di dosso la fama di musicista mortaccino?"».
Nel libro svela come nasce la musica del Bombarolo di De André, a cui lei ha collaborato. Un’ispirazione abbastanza insospettabile.
«Cercavamo una sequenza musicale che punteggiasse tutto il percorso dell’album Storia di un impiegato. Mi venne in mente una breve serie di note che risuonava quotidianamente nella casa della mia infanzia: veniva dal vicino campanile di un convento di suore – le suore d’Ivrea, si chiamavano».
Il suono delle campane nel Bombarolo?
«Mi, fa, sol, tre note alternate ritmicamente: misi quella frasetta nel disco, e divenne l’introduzione del Bombarolo. Un pezzo che a suo tempo ebbe una certa risonanza scandalosa perché ritenuto indulgente col terrorismo».
Questo è anche un libro sulle sue battaglie perse: ad esempio, quella contro la musica passiva che si sente nei ristoranti, nei locali, nei negozi…
«Le battaglie perse sono una costante per chi, come me, viene da una cultura di sinistra. O se preferisce la chiami progressista».
Dibattito attuale, aperto da Giuseppe Conte che distingue tra progressista e di sinistra…
«Progressista è un cerchio più largo. Di sinistra è un cerchio più stretto. Diciamo che un progressista è uno di sinistra più vago».
Lei è più cerchio largo o stretto?
«Stretto. Di sinistra, da sempre».
E dicevamo della battaglia persa contro la musica passiva: lei la detesta.
«Quello per la musica di sottofondo è un fastidio che condividiamo in pochi: mi sfogo quando ne parlo con Francesco De Gregori che, come me, ne soffre. Qualche tempo fa è stato in una farmacia romana in cui anche io vado, mi ha chiamato: “Hai sentito, pure lì!”. A un certo punto avevamo ipotizzato persino di fare insieme una manifestazione pubblica di protesta».
Non sarà mica un atteggiamento un po’ snob? Alla fine magari qualcuno scoprirà una bella musica così.
«Ma più la musica è bella e più, usata così, è mortificata! Sarei snob se la volessi vietare: diciamo invece che il mio è un atteggiamento di igiene mentale personale».
Si è rassegnato?
«È una causa persa: probabilmente alla maggioranza piace, forse perché aiuta a combattere l’horror vacui. E la maggioranza non ha né torto né ragione: semplicemente decide. Come nelle elezioni: il popolo è sovrano e, come tutti i sovrani, non è infallibile. Ma ha il diritto di decidere e noi di adeguarci».
Si adegua anche alla cancel culture, che pure critica aspramente?
«Lo ritengo un misto di barbarie e idiozia. Le opere d’arte del passato ci raccontano il loro tempo, con le sue grandiosità e le sue nefandezze. Correggerle per piegarle ai nostri contenuti democratici è un atto di scemenza e superbia: cambiare un’opera teatrale non serve a cambiare la realtà. Bisogna correggere la realtà, non Shakespeare».
La musica è il suo modo di credere in un Dio?
«È un argomento di cui non parlo volentieri. Ma mi ha molto commosso la risposta del maestro Muti a un giornalista che gli chiedeva se credesse in Dio: “Certo – rispose – me lo ha detto Mozart!”. Ascoltare il concerto di Ravel o i quartetti di Beethoven è un modo per allontanarsi dal materialismo per godere la sacralità del mistero».
Come andrebbe trattata la musica a scuola?
«Ho sempre detto e pensato che la scuola dovrebbe educare all’ascolto, non insegnare il flauto. Creare cittadini educati al bello della musica».
C’è un’altra cosa di lei che svela nel libro: la sua passione per l’enigmistica.
«Per le crittografie. Me l’hanno attaccata Cerami e Benigni. Paolo Conte è bravissimo. E da qualche tempo anche De Gregori è entrato nel club».
Scusi, un’ultima curiosità. Perché la terrorizza l’idea di suonare un pianoforte bianco latte?
«Un pianoforte bianco mi evoca la fatuità vissuta come insulto alla musica. Ma non c’è una ragione razionale, che le devo dire: come diceva Totò, un’antipatia è un’antipatia».