la Repubblica, 11 dicembre 2024
Al Corvetto torna la rabbia
Al Corvetto tutto bene, a parte il ragazzo in falsa tuta Adidas e false scarpe Nike, che spiega la sua rabbia, che è una grande rabbia, con un esempio semplice: «Vedi, la testa di Ramy è finita così, spaccata a metà», sfiorando con il piede un pomodoro pestato sul marciapiede, «ma adesso viene fuori la verità, le bugie della polizia sulla sua morte… Noi cosa dovremmo fare? Stare fermi? Aspettare il processo tranquilli?». E se erano davvero bugie, e non erano neanche poliziotti, ma carabinieri, all’inseguimento del T-max su cui viaggiavano Ramy Elgaml e Fares Bouzidi, nella folle traiettoria così mirabilmente simbolica, quella notte del 24 novembre, corso Como direzione Corvetto, luce- buio, centro-periferia «e periferia sfigata, non ci hanno neanche messo le luci di Natale», è vero che qui c’è una grande scritta – forse antica – che dice “L’unico sbirro buono è quello morto”, perché tutti sono sbirri, non si va per il sottile. Molte invece sono urla, spray, fresche, “Verità per Ramy e Fafa”, “Ramy sei sempre nei nostri cuori”, e la data, “24/11/24”, tracciata su case popolari più o meno restaurate, e a volte anche belle, sui davanzali, sugli scalini e dove capita. E su per queste scale si respira ancora un vecchio odore Aler, di povertà vera – cavolo bollito, spezie, sporcizia – e anche «la nostra incazzatura profonda. Erano due ragazzi, bisognava proprio che finisse così?».
Si respira così, quindi, mentre si va smontando il mercato di via dei Panigarola, dove «tutto è Nordafrica. Solo stranieri, maghrebini… Ah, quando vivevo a Lodi Vecchio, quella sì che è Europa. Un posto tranquillo, dove si sta bene». Mohamed, titolare del panificio Lorin, ha visto esplodere la rabbia del Corvetto, i cassonetti bruciati e i petardi, i fumogeni sparati contro la polizia, era la protesta per la morte del «nostro amico Ramy», e si è giustamente spaventato, da egiziano tranquillo quale è, ma poi «è finito tutto, bisogna aspettare la giustizia, no?». Sì, ec’è un rancore più profondo, nelle pieghe del quartiere ex operaio, e anche davanti al lenzuolo “Verità per Ramy”, all’angolo con via dei Cinquecento, «qualcuno lo strappa e noi lo rimettiamo. Lo abbiamo dovuto scrivere sui muri, che vogliamo la verità».
Questi sono gli amici di Ramy, che mostrano le foto con il morto, «qui eravamo piccoli…», «qui stavamo andando a Milano». Milano non è qui, eppure è solo 5 fermate di metro gialla, Corvetto-Duomo. La città è un bagliore lontano, e dice Ali, che ha vent’anni e da tre è in Italia, che vorrebbe «lavorare in centro, in Duomo. In un bel ristorante, anche solo in cucina. Ma insieme agli italiani. Non qui, ché siamo tutti stranieri. Io sogno di lavorare alla Rinascente, te lo dico. In un reparto di vestiti, ben vestito». Parliamo di giovani che fanno i magazzinieri, turno 21-5, e mettono da parte i mille euro del mese per comprarsi scarpe bianchissime, e vere, «non le imitazioni dei cinesi», che tengono per la sera del sabato, poi salgono su un T-max e vanno a Milano.
«No. No. Non ci devono essere violenze». Al bar tabacchi Il Girasole, piazza Ferrara, tre ragazzi scontrosi e poi però non la smettono di parlare, «non vogliamo che succeda casino. Non vogliamo portare nel torto la verità che sta venendo a galla». Uno è Karim e ha 18 anni, uno è Moah, «compagno di classe di Ramy al Bertarelli Ferraris, e prima alla scuola di via Oglio». Il terzo è un altro Karim, «siamo quelli che stanno in Cinquecento», davanti al lenzuolo che qualcuno strappa ogni sera. «Siamo un posto di poveri, ma non sempre delinquenti», infatti uno spiega orgoglioso: «Sono al secondo anno di Farmacia, a Pavia. Poi, la sera devo fare il facchino, per aiutare in casa». Intanto, le macchine dell’Amsa spazzano via Mompiani, proprio davanti alla casa di Ramy, evitando con cura le tre donne (una anziana, due giovani, una romena, due italiane) che raccolgono la mezza carota, l’insalata decongelata e per noi immangiabile, un limone.
«Gli sbirri qui non sono più venuti», dice Ali. In effetti, da mezzogiorno a sera non si è vista la forza dell’ordine, e soprattutto non i carabinieri, che fin dal Comitato per l’ordine e la sicurezza convocato dal prefetto subito dopo i fatti, hanno altre zone di competenza, ma non questo quadrante di città, ora affidato alla polizia. «Gli sbirri è meglio che non vengano per un po’», dice Fatma, 16 anni e un bambino per mano, che ha fatto la spesa per una famiglia di 8 persone, spendendo «solo 11 euro», e intanto fa il conto dei vestiti di chi le sta di fronte, «tu sei ricca, hai un bel piumino che costerà 100 euro…». Quindi, come si può capire la fatica di chi contratta al centesimo un chilo di mandaranci non più belli, questo intende.
«Non ci saranno vendette. Ci daranno la giustizia, e così Ramy riposerà in pace», dice Moah. E davanti al civico 5 di via Mompiani – la casa di Ramy – due ragazzi «milanesi ma originari del Bangladesh», studenti dell’Istituto tecnico Cattaneo, spiegano che «c’è stato un abuso di potere da parte dei carabinieri, tutto qua». Themiya, 17 anni, ha una qualche paura, che «il quartiere possa di nuovo esplodere. Alcuni amici di Ramy non sono responsabili come dovrebbero essere, potrebbero fare nuove violenze». Hamza, 18 anni, famiglia egiziana: «È una questione che va trattata in tribunale, e adesso scusi ma devo tornare a casa, a studiare», ma prima di salire per quelle scale dice ancora che «lo ha detto anche il papà di Ramy: giustizia, non violenza», gli amici del morto annuiscono seri, e lo giurano, anche.