la Repubblica, 11 dicembre 2024
“La mia vita in sette celle”
Quanti anni hai? «2004, gennaio». Perché ti hanno portato a Sednaya? «Non lo so».
Quanto tempo ci sei stato?«Il tempo di sette celle». Ti hanno torturato? «Tanto, perché io resistevo al dolore. Mi colpivano con il tubo sulla testa e sulla schiena». Sai come ti chiami? «Bashar Samir Yusef, sono di Idlib».
Quella che così comincia non è un’intervista, non è un racconto e non è un colloquio. È piuttosto la ricerca di un contatto con l’essere umano che forse sopravvive dentro il corpo tumefatto, violato e segregato di un giovane uomo di neanche 25 anni, che a 13 venne rinchiuso nel mattatoio di Assad e lì fu dimenticato fino a perdere la testa, la coscienza di sé e persino il nome. Perché, per quanto ne sia convinto, non si chiama Bashar Samir Yusef. E non è di Idlib.
Tre giorni fa, appena il dittatore è fuggito a Mosca, i ribelli e la gente comune hanno circondato la prigione a tre bracci e centomila orrori di Sednaya, il più famigerato dei centri di detenzione e tortura costruito dal regime baathista per rendere gli oppositori degli zombie. Oppure, spesso, dei cadaveri da stritolare nelle presse idrauliche. Hanno sfondato le porte di ferro dei sotterranei in cerca di fratelli, genitori e figli di cui per anni non si era saputo niente, se non che erano stati inghiottiti dal ventre oscuro di Sednaya. Nell’angolo di una cella c’era un ragazzo che sgranava gli occhi in modo innaturale e si esprimeva a monosillabi, coi pugni chiusi e i piedi gonfi. Non aveva documenti e, se anche li avesse avuti, non si sarebbe riconosciuto. Non aveva dove andare. Non sapeva dire come si chiamavano suo padre e sua madre. «Ho solo due nomi in testa, Delal e Tamer», sussurra durante l’incontro con Repubblica avvenuto nel tugurio di una famiglia povera che lo sta accudendo.
Siamo ad Harasta, quartiere caotico e frantumato, periferia di Damasco. Si sentono spari per aria. Il ragazzo è in piedi accanto alla stufa, rigido, assente, gli occhi si spalancano come innescati dalla memoria di un’atrocità. Gli viene detto di sedersi per stare più comodo ma lui non muove un muscolo. «È abituato così, forse pensa che anche questa chiacchierata sia un interrogatorio», spiega l’uomo che lo ha accolto nella propria casa. «A Sednaya gli interrogatori li facevano in piedi». Ti hanno sottoposto a molti interrogatori? «Sì». Avevi le mani legate? «Sì, mi appendevano per i piedi nel sotterraneo». Hai mai visto un dottore quando eri lì?«No». Avevi qualche amico? «Non mi servono gli amici». Qualcuno che ti aiutava? «Non mi serve chi mi aiuta». Vi davano da mangiare? «Sì». Cosa? «Cibo». Riso, zuppa o cosa? «Cibo».
Il suo padrino per caso, che vuole rimanere anonimo, racconta di aver ricevuto la telefonata di una donna siriana, Ahlam Al Nakib che sostiene di essere la madre del 25 enne. Lo ha visto nelle foto della liberazione dei detenuti di Sednaya postate su Facebook nei giorni scorsi.
«Mi ha spiegato che il suo veronome è Munaf Abdelkader Swid, che non è di Idlib bensì di un villaggio nella provincia di Deir ez-Zor che le guardie del regime lo hanno incarcerato quando aveva appena 13 anni solo perché il fratello, poi ucciso, si era fatto vedere con un fucile in mano».
Da allora Ahlam non ha avuto più notizie del figlio, né le ha potute chiedere perché fino a una settimana fa chi aveva qualcosa da ridire su Sednaya poi ci finiva dentro.
La donna ha fornito un dettaglio cruciale, che rende plausibile la versione: suo figlio Munaf aveva una macchia rossastra sopra il ginocchio destro. «E anche il ragazzo ce l’ha, esattamente nel punto indicato da lei». Mostra la macchia cutanea tirando su il pantalone della tuta, ma lo sguardo, prima di arrivare al ginocchio, si posa su una fascia ampia venti centimetri di pelle infetta e necrotizzata della gamba. «Fino all’ultimo lo hanno torturato…».
Munaf, o Bashar che sia, non è in grado di articolare il resoconto dei mille e mille giorni di abusi e delle violenze che hanno scandito la sua adolescenza negata e costretta.
È stato per 12 anni nel braccio rosso di Sednaya, il peggiore perché dedicato ai dissidenti o presunti tali, in sostanza a chiunque osasse non glorificare gli Assad. «Il braccio rosso ha tre piani, ogni piano 17 stanze, ogni stanza 65 persone», ha detto a RepubblicaMohammed Badli, un ex prigioniero di 31 anni. «Le stanze sono di sedici metri per quattro, senza letti. Dormivamo a terra in file parallele, i piedi dell’uno rivolti alla testa dell’altro. Non uscivi mai, non esisteva ora d’aria. Non avevi nome. Ogni giorno una guardia entrava e puntava il dito, a caso, su qualcuno. E quel qualcuno veniva torturato per almeno due ore nel sotterraneo, preso a frustate, colpito coi tubi, appeso nudo al soffitto per i piedi».
La madre di Munaf vive in Turchia ma si sta organizzando per tornare a Damasco a vedere chi ritiene essere il figlio perduto. Se anche è lui, troverà un’altra persona ad attenderlo, un giovane uomo attonito, impietrito, interrotto. Non vuole essere toccato, se lo sfiori anche per stringergli la mano reagisce con violenza. «E scappa. Appena apro la porta di casa scappa via, una volta l’ho dovuto rincorrere per un’ora».
Cosa farai adesso? «Non mi interessa».Ti ricordi il momento in cui ti hanno liberato? «No. C’era il sole e ho sentito l’aria. È fredda l’aria». Sei contento di essere finalmente libero? «Non lo so. Credo di no».