la Repubblica, 11 dicembre 2024
Un altro reportage da Damasco
Oltre il muro di cemento, svetta la bandiera della nuova Siria, verde bianca e nera. Le poche guardie armate controllano distratte i documenti, mentre in lontananza si sentono gli spari di festa dei “rivoluzionari”. “C’è da aspettare, accomodatevi pure”, dice impeccabile il concierge in doppiopetto, senza accorgersi che qualcuno ha lasciato un Kalashnikov sulla poltrona.È l’8 settembre della Siria, ma non ci sono incontri segreti né patti oscuri, l’armistizio arriva in un hotel a 5 stelle, il Four Season di Damasco, il simbolo del lusso riservato a pochi nell’era assadista, adesso espugnato dai ribelli. Tra grandi specchi, cronici dorate e tappeti milionari, il capo carismatico dei ribelli islamisti, Ahmad al Shara, il fu al Jolani – nome di battaglia di quando era un affiliato ad al Qaeda – incontra di mattina il premier e i membri dell’ex governo di Bashar al-Assad, il dittatore in esilio a Mosca. Nemici mortali che provano a gestire una transizione potenzialmente esplosiva, la Siria può rinascere o sprofondare in un altro vortice di violenza settaria, il crinale è sottile e fatto anche di cose concrete: la sicurezza, la continuità dei servizi essenziali, acqua, luce, ospedali. Gestirli significa evitare la rabbia e dunque il caos. I ribelli lo sanno e quindi bisogna parlare con i nemici. Insieme a al Shara c’è il suo fedelissimo imposto come nuovo premier ad interim, al Bashir. Di fatto è il governo di Idlib, roccaforte dell’opposizione per 13 anni, che si è trasferito in blocco a Damasco. Durerà tre mesi, poi chissà. Una nuova costituzione, forse, un patto tra le comunità per rimettere insieme i pezzi di un paese ferito.Nella hall si mescolano i mondi: funzionari Onu, reporter, combattenti in borghese di Hayat Tahrir al Sham (Hts), la fazione islamista di al Shara che ha guidato la riconquista armata di Damasco, ambasciatori. Arrivano le delegazioni delle altre comunità siriane, i curdi, i drusi. Si tratta sul futuro, in una sorta di nuova costituente. Ci sono quelli di Suwayda, la città del sud che insieme a Daraa fu tra le prime a sollevarsi contro Assad, nel 2011. Gente laica, liberale. «Non ci interessa stare nel futuro parlamento centrale, vogliamo la riconciliazione nazionale e la nostra autonomia, pluralità e federalismo», dice Rabieh Zahardin, il rappresentante druso alle “consultazioni” organizzate in tutta fretta. Seduto accanto a lui c’è Ali Omari, baffo lungo e coppola, la giacca buona delle occasioni importanti: lui negozia per conto del partito curdo di Damasco. «Il futuro della Siriaè nella fine del settarismo», dice convinto. «Con quelli di Hts abbiamo parlato di stabilità e pace. Abbiamo detto loro che vogliamo elezioni libere e democratiche, ci hanno assicurato che sarà così. Ma la prima cosa è ricostruire la fiducia tra noi».Persone cresciute nello stesso quartiere che non si rivedevano da anni, finiti su fronti opposti della Storia, i curdi damasceni silenti sotto il giogo di Assad, i ribelli armi in pugno contro il dittatore: si annusano, si riavvicinano, ma ancora non si fidano. Chi sono gl i uomini di al Shara? E cosa hanno in mente davvero?. È la domanda che si fanno in tanti a Damasco in queste ore di festa e confusione, di paura anche.Kemal Alababidi ha indossato la giacca e si è sistemato la barbetta per rassicurare. Fa partedell’ufficio politico di Hts e del nuovo governo di transizione. Risponde con toni da diplomatico: «Vogliamo la riconciliazione nazionale, niente vendette, processi per i responsabili dei crimini del regime, dialogo con tutte le parti della società alla fine del quale decideremo tutti insieme che tipo di governo dare alla nuova Siria». Con elezioni libere? Resta vago. «È presto per dire come, i prossimi tre mesi parleremo con tutti. Ma vogliamo un governo civile, non religioso e non militare, di esperti». Il mondo guarda, i siriani guardano.«Al Shara e i suoi lo sanno che sono minoranza, faranno accordi», ragiona Fuad che fino a pochi giorni fa lavorava per la televisione di stato, media di regime, e adesso è lì che parla con i ribelli su uno spartitraffico di piazzaUmayyad, la grande agorà di Damasco invasa da decine di persone in carosello, clacson, ogni tanto uno sparo in aria per celebrare. Gruppi di combattenti in pick up provano a mantenere la sicurezza, si improvvisano vigili, poliziotti. Non sono tutti di Hts, ma quelli di Hts li riconosci: divise nuove, ben equipaggiati, più disciplinati rispetto ai miliziani di altre, più piccole, fazioni armate. «Non possono imporre un governo islamista radicale – continua Fuad – altrimenti ci sarà una nuova guerra civile». Avviciniamo un gruppo in mimetica sul lato orientale della piazza. Mohammad Idris, 41 anni, è fuggito da Ghuta quando Assad bombardò il sobborgo a sud di Damasco con le armi chimiche. È entrato subito in quella che poi diventerà Hts. «Mi sono unito all’opposizione, poi mi hanno preso: 3 anni nelle prigioni del regime, sono arrivato a pesare 30 kg. Cosa voglio? Giustizia ed eguaglianza». Lo dice anche Ahmad, che ha 30 anni: «Se tutto va bene vorrei lasciare la divisa e tornare a studiare, non ho fatto il liceo per colpa della guerra civile».Cosa sia il bene, è ancora tutto da capire. Molti ripetono di non volere un governo modello talebani, Tariq si sbraccia e urla: «Come la Turchia, come la Turchia, lì c’è l’islam ma anche la democrazia». Tra le loro fila però gli estremisti ci sono. Tahlal ha 20 anni e uno sguardo di ghiaccio: «Sono stato a Sednaya, ho visto gli orrori delle prigioni del regime: sogno la vendetta, chi ha ucciso deve essere ucciso, lo dice anche l’Islam. E sì, per me il governo deve essere basato sulla sharia, la legge islamica», rivendica mentre il sole tramonta e piazza Umayyad si svuota. Due ragazzini sui 16 anni sfrecciano via in motorino, quello con la felpa bianca ha un kalshnikov a tracolla. È la prima emergenza, in questa fragile transizione, le armi uscite dalle caserme del regime che sono finite nelle mani di civili senza controllo, o sono ancora in dotazione ai militari di Assad, la manovalanza che non è fuggita come gli alti ufficiali e ha ottenuto l’amnistia. Alababidi dice che hanno un piano come ad Aleppo, «abbiamo chiesto ai civili di consegnare le armi. Per i soldati vale questa regola: quando le consegnano ricevono una tessera che gli permette di andare dove vogliono». Libertà, in cambio della resa.