Corriere della Sera, 11 dicembre 2024
Nirvana morta dimenticata
In morte della signora Nirvana – Nirvana Brkic nata a Fiume nell’allora Jugoslavia, il 6 agosto del 1967 – che ha vissuto sola, è morta sola di stenti, è rimasta cadavere per nove mesi nel suo trilocale in affitto dimenticata dai vicini di casa fin quando, al solito, costoro han protestato con le autorità per «il tanfo che usciva dalla porta» e adesso, portata via la salma, celebrato il funerale peraltro senza un suo parente, un suo amico, e tumulato il corpo, hanno fissato sul portone il pensierino a forma di cuore «Buon viaggio»; ma anche dimenticata, sempre la signora Nirvana, dagli assistenti sociali nonostante l’abitazione anzi il palazzo dai soffitti alti e gli spazi ampi in pienissimo centro appartenga al Comune, quello del sindaco Alessandro Rapinese impegnato in (davvero ardua) battaglia contro le temibili armate dei poveri barboni auspicando che abbandonino i portici casomai diano fastidio ai turisti, e ancora dimenticata, questa donna che non lavorava, mangiava alla mensa dei poveri, pregava e s’accarezzava il crocefisso con dietro attaccato il biglietto «Salvatemi», ecco dimenticata dalle suore che avrebbero dovuto starle accanto ma che in verità, dentro questo condominio abitato da anziani e invalidi, «non le abbiamo mai viste», dice il signore dell’ultimo piano sgridato dalla moglie affinché taccia.
Ma potrebbe essere una menzogna per lavarsi la coscienza.
Dopodiché avessero celebrato il funerale in un orario più classico anziché alle 9 del mattino approfittando della quotidiana messa alla medesima ora così da inglobare i parrocchiani, oltre ai becchini ci sarebbero stati soltanto il prete, l’anziano sacrestano concentrato nell’accensione delle candele, e il quasi novantenne amico che ad aver forza, e gambe, e tempo, e pure memoria, dice lui, indagherebbe sulla signora, su chi era, che enorme infinita tristezza, aggiunge.
Alla fine nella parrocchia di Rebbio governata da don Giusto – prete di strada, profilo e anima da scapestrato e scapigliato, non poteva essere altrimenti cioè non poteva che celebrare lui, unica voce di vera opposizione in città —, sulle panchine della chiesa siamo in trentadue al freddo e al gelo delle anziane coi berretti di lana e le scarpe da montagna che mormorano «poverina, poverina» ogni volta che il sacerdote affonda la narrazione nella desolazione: trentadue, un numero che nella vagabonda esistenza di Nirvana, giunta in Italia dopo un periodo in Germania anche là a far cosa non si sa, forse soltanto a sopravvivere, lei stessa non avrà mai messo insieme contando le conoscenze reali.
Non chiedeva, non rispondeva, forse nemmeno guardava e aspettava.
Rebbio sta in periferia subito arrivando dall’autostrada da Milano, alle otto passano qui intorno i ragazzini diretti a scuola, molti sono di origini africane, qualcuno ha scarpe leggere al pari delle tute, si soffiano sulle mani anche se coperte dai guanti; la chiesa è circondata dal mondo assemblato da don Giusto, è presto ma già abbondano operatori e volontari che intercettano bisogni e richieste, s’intrattengono con migranti, danno indicazioni; poi ci sono il cineteatro, l’oratorio, il campo da calcio, chiasso e fermento, e tutto ha addosso l’aria di chi aiuta, bisogna partire subito all’alba altrimenti non c’è tempo per tutti e tutto.
Lo stesso don Giusto arriva in leggero ritardo, dicono fosse in giro ad accompagnare in macchina al lavoro un po’ di gente senza la patente, ripassa veloce uno scritto, che è quello enunciato nella sua omelia: «Raccogliamo la nostra comunità per salutare Nirvana, la accompagniamo riflettendo sullo scandalo della sua morte ignobile che richiama altre morti, chi muore in mare e non trova una degna sepoltura, chi muore sulla rotta balcanica e viene trovato l’anno dopo al disgelo, oppure i giovani soldati morti che il dittatore Putin non vuole consegnare alle madri… Il nostro Dio non è quello della prepotenza ma è il pastore delle greggi che raduna i dispersi e protegge i deboli… Una città si realizza quando è accogliente... Ci auguriamo che quanto successo faccia capire che la qualità della vita nelle nostre città è rappresentata dalla qualità delle relazioni fra le persone».
Questa non è la sua parrocchia, la 57enne Nirvana abitava a cinque chilometri di distanza, appunto giù al centro, nel palazzo nobile decaduto che prima e dopo confina con negozi di pigiamini, vestiti da patiti di skate, bar raffinati o ambiziosi, negozi di giocattoli, immobiliari con impressionanti ville in vendita trattative riservate & giardino sul lago, studi di avvocati, le soste per i selfie del flusso incessante dei turisti.
La cronaca obbliga a ricordare che comunque le spese del funerale e della sepoltura nel cimitero di Camerlata sono state a carico del Comune, e si dice: beh, almeno quello. Nirvana abitava al primo piano sopra una libreria con larga offerta di libri scontati prima dell’ingresso. Dicono che non ricevesse posta se non i solleciti a pagare l’affitto che tanto non pagava; nella cassetta c’erano tipo le lettere della Regione per annunciare le visite di controllo gratuite per la prevenzione contro i tumori «ma l’ultima è arrivata tardi e lei non era più viva». Ma sentite, possibile, domandiamo, che in un palazzo di una città, un palazzo che somiglia a una comunità non fosse perché gli abitanti parlano la medesima lingua, stanno nella medesima fascia d’età, hanno il medesimo tenore di vita, possibile che per nove mesi nessuno mai si sia posto l’interrogativo su cosa fosse successo alla signora? «Lei sa come va, no?». E come va? «Che ognuno ha le sue. Ora devo scappare».