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 2024  dicembre 11 Mercoledì calendario

Quando Calvino commentò le politiche del ’76

Non piacque al direttore della «New York Review of Books», Robert Silvers, il lungo articolo scritto da Italo Calvino per la sua rivista subito dopo le elezioni italiane del giugno 1976. Gli era parso, non a torto, che mancasse di approfondimento su alcune questioni della crisi italiana. Ma il fatto era, come gli rispose giustamente lo scrittore, che aveva commissionato il pezzo alla persona sbagliata, se desiderava un’analisi storica e politologica accurata di una situazione quanto mai confusa e complessa. Oggi quell’articolo, mai pubblicato, è riemerso tra le carte di Calvino depositate alla Biblioteca nazionale di Roma e Stefano Campagnolo ne ha curato con scrupolo un’edizione per gli Oscar Mondadori, arricchita da una prefazione di Sabino Cassese, che riporta anche il carteggio con Silvers e un articolo scritto da Calvino sul «Corriere della Sera» nello stesso periodo, a commento dell’attentato in cui le Brigate rosse avevano ucciso a Genova il magistrato Francesco Coco e i due agenti della scorta.
Il libro, intitolato Il sorpasso (pp. 176,  e 12), prende il nome dall’ipotesi che il Partito comunista nel 1976, sulla scorta del successo ottenuto alle amministrative dell’anno prima, superasse la Democrazia cristiana in fatto di consensi. Non era andata così, anche se i comunisti avevano aumentato ulteriormente i voti. D’altronde Calvino riteneva che, anche se il sorpasso fosse avvenuto, gli effetti pratici «sarebbero stati nulli, cioè l’Italia sarebbe rimasta ingovernabile».
Lo scrittore, con un approccio da lui stesso definito aneddotico e colloquiale, esprimeva le sensazioni tipiche di un osservatore progressista molto critico verso la «cattiva gestione democristiana» del potere, ma piuttosto insofferente anche per la «prova di moderazione quasi masochistica» fornita dal Pci di Enrico Berlinguer. E giudicava «negativo» il risultato deludente dei socialisti e dei repubblicani, nella convinzione che il sistema avesse bisogno del contributo di forze intermedie capaci di iniziative coerenti per condizionare i due grandi blocchi.
Riaffiorava insomma, dalle parole di Calvino, l’insoddisfazione per l’immobilismo di un sistema bloccato che lo scrittore aveva già espresso nel racconto La gran bonaccia delle Antille, scritto dopo la sua uscita dal Pci nel 1957. Quasi vent’anni dopo, le acque della politica italiana rimanevano più o meno al punto di prima, con l’aggravante di una grave esplosione della violenza politica, che lo scrittore non riteneva però suscettibile di mettere in pericolo la democrazia. Le speranze di Calvino, in quella fase, erano riposte nello sviluppo del decentramento e della partecipazione dal basso, con le Regioni e i consigli di quartiere, e nella «prospettiva dell’Unione europea». In effetti la legislatura cominciata nel 1976 e terminata nel 1979 avrebbe confermato il quasi monopolio democristiano del potere, con governi monocolori, presieduti da Giulio Andreotti, che ebbero prima la benevola astensione e poi, per una fase più breve, il voto favorevole del Pci. Tuttavia retrospettivamente, nota Cassese nell’introduzione del libro, va ricordato che quel triennio vide l’approvazione di riforme significative, quali la legalizzazione dell’aborto, l’equo canone, il trasferimento di funzioni alle Regioni, l’istituzione del Sistema sanitario nazionale. Parecchio si mosse in direzione degli «obiettivi dello Stato sociale promessi dalla Costituzione». Ma questo Calvino, nel giugno 1976, non poteva prevederlo.