Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 11 Mercoledì calendario

L’archivio dei crimini di Assad

In un appartamento sulla Karl-Marx-Strasse, a 3 mila chilometri da Damasco, c’è il più importante archivio dei crimini di Assad. Si aggiorna in tempo reale, mentre le carceri si svuotano e le ombre, riprese dai telefonini, abbracciano i genitori. 
Nessun indirizzo sul campanello. Solo un celebre cognome fittizio, come d’un angelo protettore. I vicini, in questa strada di Neukölln dove Berlino sembra Medio Oriente, non hanno idea di cosa succeda al piano di sopra. «È per motivi di sicurezza», dice Hadi al Khatib quando scende ad aprire. Sopra sembra una start up, la lingua è l’inglese, e tutti qui da 48 ore si chiedono se sia tutto vero, se Assad e il regime se ne sono veramente andati dopo 50 anni. E passano – come dice Jelnar Ahmad, braccio destro di Hadi —, dall’euforia alle telefonate al pianto. E migliaia di siriani come loro. 
Hadi al Khatib, 40 anni, è un nerd: nel 2021 Time l’ha nominato tra le persone dell’anno. Ha un figlio adolescente dal nome italiano, Giovanni e 10 anni fa – esattamente oggi, la Storia è beffarda – ha fondato Syrian Archive e poi Mnemonic. È grazie alle prove digitali prodotte da loro che la Francia un anno fa ha spiccato il mandato d’arresto contro Bashar Assad per l’attacco chimico a Ghouta, periferia di Damasco. Con tanti saluti ai negazionisti. «Che Assad sia fuggito – dice Hadi —, che non sia più presidente, è decisivo: ha perso l’immunità». 
Ma è in questi giorni che la sua «macchina» rodata è entrata a pieno regime. Costretti all’esilio, Hadi e i suoi hanno cominciato a registrare da fuori gli orrori della guerra a casa: con fonti aperte su Internet e sui social, disseminate di miliardi di indizi (individuano per esempio nei video le cluster bomb russe con l’intelligenza artificiale). Hanno allargato le ricerche all’Ucraina, la Bielorussia, lo Yemen. Il metodo: acquisire, archiviare, processare, verificare. Hanno 3.578.591 video; 650mila sono stati processati; 8.249 verificati; 2.069 episodi investigati. Dal web al terreno. 
Stavolta erano pronti. Nulla di ciò che si visto sul web di Sednaya, il mattatoio umano di Bashar, è loro sfuggito. «In 24 ore – dice Jelnar – abbiamo registrato oltre 21.000 nuove entrate, una cifra mostruosa». I video dei bimbi di tre anni, nati in carcere e mai usciti da lì, con ogni probabilità figli dello stupro dei carcerieri. Le migliaia di scarpe ammucchiate in montagnette, come in un lager. I dialoghi dei primi soccorritori, i picconi che spaccano i pavimenti, i presunti barili dell’acido. Le guardie che in nove vogliono scappare su un motorino. 
Mai prima d’ora un simile materiale, estemporaneo e fuggente come nelle Stories di Instagram, è stato raccolto in diretta. «TikTok, YouTube, Telegram, altri social: 24 ore dopo alcuni canali erano già chiusi, ma abbiamo salvato il materiale». Istantanee in presa diretta sul disfacimento d’un regime. Poi ci sono gli armadi con i documenti recuperati nei palazzi, e le testimonianze delle vittime. «Sono i tre livelli: si uniranno», dice Hadi. Né a Srebrenica né a Grozny né tantomeno prima, tanti dettagli di «vita vera» erano a disposizione degli storici. E dei giudici. 

Chiediamo se all’Archivio sanno quante persone c’erano a Sednaya, se può esserci ancora qualcuno nel sottosuolo. «Sono tutti fuori, secondo le dichiarazioni ufficiali», risponde Jelnar. E quanti erano? «Tra 2.500 e 2.000». Jamal abbassa la testa, sa che sono pochi. Erano oltre centomila – fino a 137.000 secondo la ong Syrian Network, che ne tiene traccia —, i desaperaçidos siriani. Portati via dalla polizia senza che le famiglie avessero mai saputo niente di loro. Per questo in tanti si sono riversati a cercare i propri cari nelle carceri, da Hama a Homs a Damasco. Ma se come dicono le ong umanitarie, i liberati in tutta la Siria sono 30 o 40mila, allora vuol dire – con ogni probabilità – che gli altri centomila saranno per sempre missing. 
«Non possiamo ignorare tutto questo passato, come se non fosse mai successo – dice Hadi – E d’altra parte, abbiamo bisogno di una spazio per la riconciliazione. Vedere come perdonare, come possiamo vivere insieme, per non diventare un nuovo Sudan». 
Per quelli dell’Archivio siriano la giustizia dovrà avere un contesto internazionale. Chi punire, chi sono i responsabili oltre Assad? È troppo presto per dirlo. Come tutti i siriani, anche Hadi e Jernal dicono: «Non sappiamo se si potrà tornare, se ci sarà l’acqua, il cibo, come sarà il nuovo Stato. Abbiamo paura di quel che verrà, sentiamo l’ansia». Ma, per la prima volta, è più forte la speranza. 
Come altri Paesi, come il Sudafrica di Mandela, o brevemente la Russia di Gorbaciov negli anni Novanta affacciata sui crimini di Stalin, la Siria potrà forse guardare la voragine in cui l’ha sprofondata il regime e valutare l’estensione del proprio danno. Un giornalista siriano, Kareem Shaheen, in un bellissimo articolo ha citato i versi della cantante libanese Fairouz «I miei occhi sono poggiati su te, o Damasco, poiché è da te che nasce l’alba» e scritto: poveri voi, che non riuscite a sentire la bellezza di questi versi in arabo. Per Jernal, l’alba sarebbe tornare a rivedere dopo 10 anni i genitori. Per Hadi, invece, «andarci per la prima volta con mio figlio», portarci Giovanni.