Corriere della Sera, 11 dicembre 2024
È difficile che Trump possa permettersi il lusso del disimpegno
Sempre convinto che la politica estera vada gestita come un dealmaking vantaggioso per gli Stati Uniti, Donald Trump si prepara a tornare alla Casa Bianca avvertendo che non vuole coinvolgimenti diretti nella partita siriana: sulla sua piattaforma, Truth Social , scrive a lettere maiuscole, «non sono nostri amici, non è la nostra battaglia, restiamone fuori!». Ma il leader repubblicano eredita un mondo molto diverso e più complesso rispetto a quello di quattro anni fa. Difficilmente potrà permettersi il lusso del disimpegno. Sul piano diplomatico e, forse, anche su quello militare.
Il crollo del regime di Assad gli offre l’opportunità di aumentare la pressione sulla Russia e sull’Iran, nemici indeboliti: a Putin chiede di negoziare subito la pace per l’Ucraina. Con l’Iran (che ha cercato di ucciderlo come rappresaglia per l’eliminazione, nel 2020, del generale Soleimani) è più complicato: a Teheran c’è chi vuole tornare a negoziare fermando il programma nucleare e chi vuole l’atomica a tutti i costi. Ultima linea di difesa di un regime sempre più vulnerabile. Trump si mostra duro, ma ha mandato Elon Musk a sondare l’ambasciatore iraniano all’Onu.
Ora, però, con la caduta di Assad, tutto passa per la Turchia di Erdogan, potenza regionale che estende la sua influenza.
D avanti a un leader turco che da anni gioca in modo spregiudicato su tutti i tavoli, per Washington è sempre più difficile gestire il rapporto con un alleato della Nato così indisciplinato: flirta con la Russia, compra i suoi missili, ma poi la colpisce in Siria. In Ucraina fornisce i suoi droni all’esercito di Kiev ma poi aiuta Mosca a eludere l’embargo e si propone come mediatore. Trovando un Putin ben disposto.
In queste ore in Siria, dietro le immagini festose delle milizie un tempo legate ad Al Qaeda che ostentano improvvisamente moderazione ed ecumenismo, sta succedendo di tutto: Israele avanza nelle alture del Golan. Poi bombarda le basi dei ribelli che considera più pericolosi e quelle del vecchio regime dove sostiene siano ammassate le armi chimiche di Assad. Intanto gli Stati Uniti lanciano attacchi contro le formazioni dell’Isis che vanno ben oltre le capacità offensive dei 900 uomini delle loro basi situate nel territorio siriano controllato dai curdi: i bombardamenti con gli F15, gli A10 (una specie di cannone volante) e, addirittura, coi bombardieri strategici B52 partiti da basi molto lontane, indicano una volontà dell’Amministrazione uscente, quella di Biden, di evitare che ancora una volta la caduta di un dittatore sanguinario lasci spazio a terroristi ancora più feroci.
In quest’ultimo scorcio della sua presidenza, Biden gioca una partita densa di inevitabili contraddizioni: da un lato continua ad appoggiarsi ai curdi che per Erdogan sono terroristi, nemici giurati. Non solo usa le loro basi, ma, ora che il regime di Assad è evaporato, li incoraggia a espandere la loro presenza verso il centro della Siria per evitare che nel vuoto di inserisca l’Isis. Dall’altro, non potendo parlare direttamente con l’HTS di Al Jolani, entrato da vincitore a Damasco ma la cui organizzazione è tuttora bollata come terrorista dal governo Usa, lo sta facendo attraverso il governo turco. Ed è attraverso Ankara che Al Jolani promette di creare un governo di pacificazione nazionale rispettoso dei diritti umani e civili.
Difficile crederlo, alla luce di quanto accaduto negli ultimi decenni in Medio Oriente. La Turchia promette di essere garante di questa ritrovata stabilità ma bisognerà vedere se riuscirà a tenere a bada le mille formazioni ribelli ormai radicate in territorio siriano. A Washington c’è anche chi si chiede se, nel nome della riconciliazione (e delle ambiguità di Erdogan), Al Jolani non lascerà qualche spazio ai russi e agli iraniani, messi alle corde dalla perdita del loro canale di rifornimento degli hezbollah libanesi che passa proprio dalla Siria. Improbabile vista la ferocia della guerra combattuta fin qui, ma non da escludere. E poi la sortita del leader turco: «Non tollereremo più che venga messa in discussine l’unità territoriale della Siria». Un monito che sembra rivolto, più che all’occupazione del Golan a Sud (Israele sostiene che sarà momentanea), ai curdi e ai loro protettori americani.
Il Pentagono assicura che non darà tregua all’Isis. Né pensa di smantellare le sue basi. Ma tra sei settimane inizierà l’era Trump. Cambierà rotta? Sicuramente il nuovo presidente riconoscerà un ruolo maggiore alla Turchia, precondizione per un suo eventuale, parziale disimpegno. È quello che si aspettano i turchi che hanno festeggiato l’elezione del leader repubblicano. E Trump, che ha una mentalità negoziale simile a quella di Erdogan e predilige le trattative con «uomini forti», andrà in quella direzione. Ma l’ostacolo che ha complicato il rapporto fra i due nel suo primo mandato (l’acquisto di missili russi S400 che ha portato all’esclusione della Turchia dai sistemi di difesa Nato di tecnologia più avanzata) non è stato ancora rimosso.
Trump ci penserà due vote prima di smantellare le basi e togliere il sostegno ai curdi. Non solo perché gli uomini che ha scelto per la politica estera (il segretario di Stato Marco Rubio e il consigliere Michael Waltz) sono «falchi» pro-curdi, ma soprattutto perché, avendo vantato in passato i suoi meriti per la distruzione del Califfato, ora non può permettersi di lasciare di nuovo spazio all’Isis.
Né può pensare che una Russia in difficoltà rinunci del tutto alle sue mire nel Mediterraneo: un ritiro americano potrebbe spingere Putin verso la Libia, visto che i mercenari della ex Wagner sono già in Cirenaica e dialogano con Haftar. Il vero rischio con Trump, dichiara alla Fox H.R. McMaster, che fu suo consigliere per la Sicurezza nazionale nel primo mandato, è che, abituato alla logica dei deal separati coi suoi avversari e attratto dalla possibilità di metterli uno contro l’altro, perda di vista il fatto che «Iran, Russia, Cina e Nord Corea sono tutti fili di una stessa trama».