il Fatto Quotidiano, 10 dicembre 2024
Il Nobel Jon Fosse pubblica un nuovo libro in cui racconta la sua conversione, alla sobrietà e al cattolicesimo
Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo Jon Fosse sente l’eco di Dio, dell’Arte e del Vinsanto; lo racconta nella parabola dell’“anziano attore che aveva smesso di bere: per farcela aveva dovuto sostituire spriten, l’alcol, con spiriten, lo spirito, la fede, altrimenti non ci sarebbe riuscito”. Norvegese, 65 anni, Nobel per la Letteratura nel 2023, lo scrittore e drammaturgo ha più volte confessato la sua duplice conversione: al cattolicesimo e alla sobrietà, conscio però che – tra vizio e virtù – tout se tient; “c’è una certa somiglianza tra scrivere e sballarsi… Sia lo scrivere sia l’ebbrezza ricordano la fede, perché anche la fede mi porta lontano da me stesso e dentro di me, laggiù fino a dove non esiste alcuna angoscia”.
Dell’intricata trama di pessimismo e speranza, depressione e creazione, Fosse torna a parlare ne Il mistero della fede, in libreria da oggi con Baldini+Castoldi, prima edizione italiana a due lustri dall’originale: in questo libro-intervista l’“eloquente profeta” Jon si confessa al teologo Eskil Skjeldal, a cui è legato da una profonda amicizia e un destino comune, quello di essere entrambi convertiti. Il primo aveva abbandonato la Chiesa (protestante) di Norvegia e le suggestive “case di preghiera dei quaccheri” a 16 anni; il secondo, invece, era stato un pastore luterano: dopodiché, il nulla, l’agnosticismo se non l’ateismo, fino alla riscoperta del sacro al cospetto del cattolicesimo. “Dove la disperazione raggiunge il limite, lì c’è Dio”, spiega Fosse con la tipica autoironia nordica, e c’è da credergli: il divino si accompagna sempre al riso e al verso, quantomeno poetico. The rest is silence, il silenzio di Dio, altro che “verbo”; al più viene in soccorso una lingua aspra, dura come il nynorsk: perciò la parola è un “dono”, una “preghiera” rivolta a qualcosa o qualcuno altro e Altro da sé. Tanto “Dio è in te” quanto “la poesia è in te”: basta prestare loro ascolto. Non v’è nulla di originale in questa prosa che è una specie di preghiera, di litania, di liturgia: “Io scrivo al fine di raggiungere una specie di distacco che mi consenta di vedere ciò che è così ovvio da non poter essere visto altrimenti, cioè il basilare, o in un certo senso il banale… Ogni vero poeta può scrivere solo una poesia, in realtà ha solo una poesia, e nella sua produzione letteraria degna di questo nome rimane fedele a questa poesia, la ascolta e cerca continuamente di esprimerla”. Eppure quell’umana creazione detta arte resta sempre un tentativo, uno sforzo, uno slancio tra la favella e il silenzio, propiziato – si spera, a Dio piacendo – dalla “grazia”.
A guidare Fosse, più che i patriarchi e prima ancora di Cristo, sono gli Alte Meister della filosofia e della letteratura, dell’allegrezza e del pensiero, del “buio luminoso” e dell’“essere per la morte”; da Agostino a Kafka, da Dante a Wittgenstein, da Heidegger a Cioran, tra “mistica negativa”, “meraviglia”, mortalità, limite, libertà. Molti numi tutelari, come il norvegese, vivono anfibi tra narrativa e teatro – gli altrettanti premi Nobel Peter Handke e Samuel Beckett – o sono eclettici di prosa e poesia, vedi Rainer Maria Rilke, o sopravvissuti alla bottiglia e ai demoni come Marguerite Duras: “L’alcol non consola, non riempie i vuoti psicologici, tutto ciò che riempie è l’assenza di Dio”. Eppure Jon non nasconde nulla, né rinnega il passato da sballato; anzi, citando un collega: “‘Fa così freddo nel duomo, madre/ invece nell’osteria all’angolo c’è luce a ogni tavolo’… Ho trovato più verità, vita sincera e calore umano tra i miei compagni di bevute che negli ambienti cristiani. Erano loro a essere molto più vicini alla verità, sì, in un certo senso più vicini a ciò che è cristiano”. Non ultimo viene l’alcolista indignato: “La cosa più ‘mistica’ che ricordo di aver sentito dal pastore era che il vino ai tempi di Gesù doveva essere analcolico”. Seee. “Io credo che la Norvegia si fermerebbe quasi completamente se scomparissero gli alcolici”.
La disintossicazione dello scrittore, e parallela conversione, è forzata, in un certo senso, da un grave collasso fisico e psicologico; dopo, Fosse smette di bere e fumare, pur restando bevitore e fumatore: “Ci sono stati anni in cui mi svegliavo e la prima cosa che facevo era vomitare. Anche questo è un modo di affrontare la giornata… Mai stato moderato”, né mainstream, piuttosto salmone norvegese et controcorrente, Bartleby signornò, “non coinvolto in alcun sistema”. Cerimonia religiosa compresa: “Dubito che sia giusto portare i bambini piccoli a messa. Disturbano se stessi e gli altri: possono rovinare l’intera funzione… e oltretutto non ne hanno bisogno: sono già una messa di per sé”. La fede è divisiva e riottosa perché “ha a che fare con il bisogno di verità… Mi sento profondamente a disagio in quei contesti dove tutti si annoiano e condividono le stesse opinioni senza avere la benché minima idea su che cosa concordino. I raduni cristiani possono essere così, ma vale anche per i cosiddetti incontri ‘culturali’: nel mondo della cultura, questo consenso può essere davvero insopportabile”.
Solitario, ma non triste y final, Fosse sa che “sofferenza e disperazione” si portano con tutto e su tutto, ma stanno meglio nella palette di “fede e arte, infantilismo e ingenuità… contro il realismo e la riduzione freudiana o marxista dell’essere umano”. L’unico farmaco che passa la mutua celeste, droga o medicina che sia, resta la scrittura: “Terapeutica. Un’automedicazione”.