il Giornale, 10 dicembre 2024
Stroncatura della Gabanelli
Ieri Milena Gabanelli, sul «Dataroom» di un quotidiano molto diffuso, si è fatta una domanda e si è data una risposta: entrambe sbagliate, a nostro (...)
(...) dire. La collega, in sintesi, si è chiesta di quale mancanza di libertà vadano cianciando i leader della destra mondiale (da Trump a Le Pen alla Meloni) e soprattutto quale comunismo vadano additando quando sono proprio loro che, da destra e qui cominciano le forzature, anche ridicole su un piano giornalistico e politico, hanno rapporti con Putin, Orbán e il cinese Xi Jinping: dopodiché sono quest’ultimi tre, a loro volta, che, tra divieti o forti limitazioni, inibiscono o vietano le libertà di associazione, stampa, espressione, accesso a internet, indipendenza della magistratura e matrimoni omosessuali. Per proprietà estensiva, dunque, sarebbero i leader della destra europea (più Trump) i veri liberticidi, coloro che agitano lo spettro del comunismo come uno spauracchio.
Ora: l’errore più grave sarebbe accettare lo stesso schema «insemistico» di Milena Gabanelli e mettersi a spiegare perché il mantenere rapporti diplomatici con Viktor Orbán, che è a capo di uno Stato dell’Europa comunitaria, non sia lo stesso che averne con la Cina, oppure con Putin, o perché infilare Meloni e Salvini tra coloro che «non disdegnano Putin e Xi Jinping» (sottotitolo della Gabanelli) sia forzato a dire poco. Allo stesso modo lo sarebbe chiedersi, a proposito di schematismi, come mai Milena Gabanelli non abbia contemplato i rapporti delle destre e delle sinistre con un tema che spartisce molto con il concetto di «libertà»: Israele, i pro Pal, Hamas, la democrazia, l’islamismo, queste piccolezze. Ma non è il caso di inciampare in questo discorso anche se, da solo, basterebbe: non sono certo le destre indirettamente a «non disdegnare» (secondo lo stesso schema della Gabanelli) la negazione della parità di genere, dell’eguaglianza, dell’ammettere le pene corporali e del contemplare la sottomissione dell’infedele.
Un secondo errore da non fare (ma la Gabanelli lo fa) è insegnare a dei
politici che hanno vinto come dovrebbero fare i loro comizi: se, dal Berlusconi del 1994 in poi, altri leader hanno effettivamente usato l’espressione «comunisti» per interagire con milioni di persone (esclusi noi superiori, che abbiamo studiato Marx e Engels) significa che, forse, sapevano quali corde andavano a toccare: che non erano la collettivizzazione dei mezzi di produzione, ma era il subodore di qualcosa di comunque calato dall’alto su un fronte politico, economico e culturale.
E qui veniamo, nel nostro piccolo, a ciò che il «Dataroom» di Milena Gabanelli non ha contemplato per niente: i consensi che le becere «Destre delle libertà» (e i loro oscuri leader tacciati di fascismo) hanno ottenuto da gente che storicamente non doveva votarle, dagli operai al neo-proletariato alle minoranze etniche. Veniamo, ossia, a una sinistra che è passata dalla tutela dei diritti alla dittatura delle minoranze: questo, almeno, nella percezione comune di gente che accetta addirittura che si dica ancora «comunista» per denominare degli oligopoli culturali ed economici; veniamo, dicevamo, alla pretesa di moraleggiare e neutralizzare ogni dibattito attraverso una cultura del politicamente corretto (o woke) che stabilisce quello che si possa o non si possa dire anche a proposito di realtà che tagliano il vivere quotidiano come un coltello: l’immigrazione, il multiculturalismo, la segregazione sociale, il welfare declinante di uno Stato-madre che non c’è più, il celeberrimo Paese reale in cui sopravvivono interpretazioni del reale delle quali, «dall’alto», non si ha più idea, né soluzioni da proporre. Veniamo, insomma, a un becero «populismo» che è pur sempre votato da un popolo, che tanto libero, forse, non si sente