La Stampa, 10 dicembre 2024
Il patto Putin Erdogan: Aleppo in cambio delle basi
Una grande insofferenza, a volte velata di disprezzo, emergeva sui principali canali Telegram militari russi, a cominciare dal più seguito, Ryber. Erano almeno sei mesi che i “corrispondenti” dalla Siria si lamentavano dal cattivo uso che faceva l’esercito dei costosi sistemi antiaerei forniti da Mosca. Che regolarmente finivano distrutti dai raid israeliani. Anche se in maniera indiretta, trapelava lo stato pietoso delle forze del regime, la mancanza di coordinamento con gli alleati, la stanchezza delle truppe, logorate da dodici anni di guerra civile e poi finite nel fuoco incrociato tra Israele e l’asse sciita della resistenza. I sintomi di un possibile collasso. E di un distacco sempre più evidente della Russia dal suo principale alleato mediorientale. La sua porta sul Mediterraneo. Strategica, certo. Ma meno dell’Ucraina.L’abbandono della Siria è poi emerso in maniera lampante nel blitz dei ribelli. Pochi raid da parte dell’aviazione russa, nessun appoggio delle residue forze speciali nel Paese. Vladimir Putin si è preoccupato soprattutto di mettere in salvo i suoi uomini e mezzi, subito indirizzati verso la costa di Tartus e Lattakia. E ha lasciato Bashar al-Assad al suo destino.Ma non lo ha fatto senza prima trattare con Recep Tayyip Erdogan. Un’altra critica che emergeva dai canali Telegram, con rapporti privilegiati con il Cremlino, riguardava infatti la “testardaggine” del raiss siriano, che non voleva trattare con il leader turco. Gli era stato offerto un incontro diretto più di una volta, ma Assad continuava a insistere che prima la Turchia «doveva ritirare le sue truppe».La trattativa alla fine è stata condotta senza di lui. Al vertice di Doha di sabato Mosca e Teheran erano ormai consapevoli che l’esercito siriano era in rotta. Erdogan aveva già lanciato il suo proclama, «marciare su Damasco». Russi e iraniani gli hanno chiesto garanzie, e in cambio hanno sgomberato la strada dagli ultimi ostacoli. Soprattutto l’ultimo, convincere Assad all’umiliazione della fuga. Le garanzie chieste da Teheran erano di tipo religioso e settario. No alla profanazione dei santuari sciiti, in primi quello di Saydna Zeinab a Damasco, uno dei più venerati, visitato ogni anno da milioni di pellegrini. No a persecuzioni della minoranza sciita. Richieste simili a quelle fatte ai Taleban tre anni fa, dopo la caduta di Kabul.Ai russi invece interessa più l’aspetto militare. Salvare la base navale di Tartus e quella aerea di Khmeimim. E garantirsi il libero passaggio delle navi della flotta russa attraverso il Bosforo. In gioco c’è la residua influenza di Mosca nella regione. E anche in Africa. Khmeimim, oltre a ospitare i cacciabombardieri Su-35 e Su-34, è uno scalo importante per i cargo militari che vanno in Libia e nel Sahel. Gli Antonov non hanno autonomia sufficiente per arrivare a destinazione, se a pieno carico. Devono fare sosta in Siria e rifornirsi. Senza la base aerea di Khmeimim alimentare l’Afrika Korp che staziona in Centrafrica, Niger e Mali, diventerebbe impossibile o costosissimo. L’unica alternativa è sostituire Tartus e Khmeimim con una base aeronavale a Tobruk, nella Libia orientale, come ai tempi dell’Unione sovietica. Ma anche qui Putin si ritrova in condominio con Erdogan. Tra le garanzie richieste c’è quindi il mantenimento delle zone di influenza, con Tripoli sempre più in mani turche e l’Est sotto mandato russo, egiziano ed emiratino. L’ipotesi di sostituire la Libia con il Sudan, e una base sul Mar Rosso è stata invece affossata dalla guerra civile che sta devastando di nuovo il Paese.Per il momento, le basi russe in Siria non sono state attaccate. E neppure i santuari sciiti. Resta da vedere quanto dureranno le garanzie di Erdogan, un alleato di cui russi e iraniani hanno imparato soprattutto a non fidarsi. Il leader turco ha messo sul tavolo le sue richieste. Una profonda fascia di sicurezza lungo tutti 900 chilometri di frontiera con la Siria, da completare con l’espulsione dei curdi da Kobane e Qamishlo. La creazione di una zona economica speciale ad Aleppo, che un tempo veniva chiamata la “Milano siriana” per via dell’industria tessile e meccanica, e destinata a diventare l’area di delocalizzazione privilegiata delle aziende turche, in cerca di manodopera a basso costo e di buona qualità. L’unico ostacolo a questo punto resta la presenza di truppe americane nel Nord-Est della Siria. Erdogan sembra sicuro di poter convincere “l’amico” Donald Trump a ritirarle. È un gioco su tre o quattro tavoli che alla fine potrebbe lasciare Putin con il cerino in mano. Senza più le sue preziose basi sulla costa siriana e senza molto da offrire in cambio della loro sopravvivenza