la Repubblica, 10 dicembre 2024
“Finché c’è luce la fotografia non morirà”
La fotografia è una principessa un po’ invecchiata, che in un castello soffre l’agonia della sua ennesima morte annunciata; edecco, due valorosi cavalieri accorrono per salvarla, ma a una condizione: che dimentichi tutto ciò che per due secoli il mondo ha detto, fatto e pensato di lei. I due cavalieri sono un fotografo, Paolo Roversi, e un filosofo, Emanuele Coccia. A lungo si sono scambiati lettere sulla fotografia, ora sono un libro, Lettere sulla luce (Contrasto): e il libro dice che la fotografia non è arte, non è documento, non è specchio del reale, non è scrigno di memoria: la fotografia è un rito magico, antropologico di comunione della luce col mondo e i fotografi sono i suoi sciamani.
Abbiamo sbagliato tutto, con la fotografia, in questi 200 anni?
Emanuele Coccia : «In realtà la fotografia non ha mai fatto quel che le era stato detto di fare. La cosa bella della fotografia è che ogni generazione se l’è reinventata, in modo più ricco di quanto gli studiosi ci hanno detto. Io e Paolo abbiamo cercato di eliminare il chiacchiericcio che ha appannato la comprensione del mezzo. Si è scritto tanto sulla fotografia ma pochissimo sulle fotografie reali, quelle fatte dai fotografi. Eppure hanno determinato la nostra vita più di quanto abbiano fatto le opere dei pittori. Se si studiasse Robert Frank come si studia Picasso… La fotografia è stata asfissiata da discorsi che non parlano mai delle foto, ma solo dell’essenza pseudotecnica del mezzo».
Paolo Roversi : «Asfissiata, esatto, questa povera fotografia non riusciva più a respirare, mancava di ossigeno, e non solo per colpa dei critici, ma per come l’hanno usata tanti fotografi. Io ed Emanuele siamo ripartiti dai pionieri, da Niépce, da Talbot, questi fedeli impiegati del sole che scrissero con l’inchiostro cosmico della luce, che cercarono il bacio del sole sulla terra, il legame che avvicina la terra al cielo. Abbiamo cercato di togliere la fotografia dal binario prosaico su cui subito dopo di loro fu costretta a correre. Talbot scriveva dietro le sue foto:sol fecit.
Per lui era magia naturale».
EC :«Se ci pensi, è più magico far fare alla fotografia quello che è stata costretta a fare: questa curiosa idea, che la fotografia sia solo una trappola che cattura qualcosa che è stato e non è più, è un’idea di incantesimo da fattucchiere. La fotografia è magica, è vero, ma perché la realtà è magica, e quindi è ora di liberarla dall’ingenuità che l’ha voluta schiava di una magia nera, inchiodata a un’idea rozza del reale. Pensare la fotografia come la pensava Barthes,ridurla al solo ça a eté,è impoverirla, ed è cadere in una frustrazione, perché subito ti accorgi che il reale è molto più di quello che riesci a catturare con quella macchinetta. Abbiamo cercato di restituire magia alla fotografia togliendole la superstizione del realismo».
PR :«Il mio laboratorio si chiama Studio Luce, il mio rapporto con la luce è quotidiano, affettuoso, sensuale. Come diceva Nadar, imparare la tecnica fotografica è facile, difficile è imparare ilsentimento della luce. La luce è sentire, non misurare. Io non uso esposimetri. La luce è piacere e dolore, niente di razionale, è illogica e assolutamente ribelle. A un certo punto ho rinunciato anche a produrre luce artificiale e ho accettato la luce naturale, l’ho rispettata senza correggerla, ho una grande finestra che accoglie la meravigliosa luce del nord… Oggi la luce si vende e fa vendere.
Notre-Dame restaurata è invasa da luci artificiali, illuminiamo perdimostrare, per possedere…».
EC :«Beh, usiamo anche la divinità per possedere e commerciare… Che si usi la luce per le peggio cose non dimostra una sua mancanza di innocenza. Abbiamo creato dei succedanei utilitari del sole, ma può esserci un uso nobile anche della luce artificiale, che in fondo si fa con materie modificate dalla luce del sole. Il problema è non fare sciocchezze».
PR :«Quando ti siedi all’aperto, con la faccia al sole, non è come quando ti siedi sotto i fari di Notre-Dame, è molto più mistica la prima cosa…».
EC :«È come se non sopportassimo più la presenza dell’ombra, ma l’ombra è un modo di vedere la luce.
Non sopportare l’ombra significa non capire la nostra dipendenza dal sole.
Non credo sia un problema della modernità, anche il Medioevo non aveva un rapporto così colto con la luce, anzi la religione si intrometteva e rovinava tante cose».
PR :«L’ombra è figlia della luce, è la sua sentinella, dove c’è ombra c’è luce. La camera oscura è buia, l’interno di una fotocamera è buio. La fotografia nasce nell’oscurità, come la luce. A me piace camminare su questa frontiera tra luce e ombra, bene e male, femminile e maschile… La visitatrice di una mia mostra mi disse: anche tra bellezza e bruttezza?
Risposi signora, la bellezza è camminare in equilibrio sulla linea della penombra».
EC :«La fotografia è qualcosa della luce solare che portiamo sempre con noi e prende la forma della nostra esperienza del mondo.
Un’esperienza che grandi profeti, i fotografi, da sempre raccontano ad analfabeti che non la comprendono.
Però anche gli analfabeti della fotografia, quando fanno immagini, coltivano il desiderio di produrre qualcosa di spirituale. Anche inquesto enorme tappeto di foto sgrammaticate c’è l’intuizione che è possibile addomesticare la luce e lasciarsene addomesticare. Il guaio non è che esistano Instagram o Facebook, è aver dato a tutti una penna senza insegnare grammatica e storia della letteratura».
Anche l’intelligenza artificiale è una stregoneria, pronunci una formula e scaturisce chissà come un’immagine.
EC:«È un’operazione sul già fatto, è una finzione di fotografia che in realtà risponde a un comando verbale. Senza dare giudizi apocalittici, l’entusiasmo che circonda i robot fabbricanti di immagini dimostra quanto poco abbiamo capito della fotografia, che invece il reale lo muove. Per fare quello che fa Paolo bisogna spostare corpi, persone, cercare la luce e invitarla in scena…».
PR:«Nel fotografico ci sono decisioni da prendere, scelta dell’obiettivo, posizione dei soggetti, degli oggetti, e io ho tantissimi dubbi, i dubbi sono la mia materia prima, mentre le certezze sono una porta chiusa all’immaginazione. L’intelligenza artificiale non ha mai dubbi, solo enormi certezze statistiche. L’arte è prendersi rischi, l’intelligenza artificiale è pavida, non rischia mai».
Nonostante tutte le sue morti annunciate, la fotografia vive. Che cos’ha di speciale per resistere così tanto?
PR:«Il tempo… Crediamo di aver catturato lo spazio e invece lei ci dà il tempo. Un presente continuo, una piccola esperienza di eternità che non ci danno né il cinema né la tv né lo schermo del computer. È presenza e assenza, è dualismo di vita e di morte, e questo la rende spirituale come nessun’altra immagine fattadall’uomo».
EC:«Ogni fotografia aggiunge una scheggia di tempo al tempo, questo è un miracolo. Un supplemento di eternità, anche se precario. Più che una invenzione è una scoperta, di qualcosa che corrisponde alla natura della tua anima. Per questo sono ingenue le diagnosi di morte della fotografia. O moriamo noi, o la fotografia non muore. È arrivata per restare».
PR:«Avremo eredi, ci saranno altri fotografi, giovani sciamani che legano l’altro mondo al nostro. Non avendola inventata, non la possiamo distruggere».
EC:«Un giorno alcuni umani dissero: mettiamoci al servizio del sole. Erano i fotografi. È stato un giuramento, come quello dei medici a Ippocrate: vale per sempre. Potremmo chiamarlo il giuramento di Nadar».