la Repubblica, 10 dicembre 2024
Biografia di Nadia Nadim
La forza del carattere si intuisce già dal tono della voce di Nadia Nadim, classe 1988, attaccante del Milan che l’altra sera ha coronato il sogno di mettere in rete la palla che ha segnato il fatidico pareggio nel derby contro l’Inter per la squadra che lei, afgana scappata dal regime dei talebani, definisce come la sua «seconda famiglia».
Che emozioni ha provato entrando a San Siro come giocatrice di una delle squadre più famose del mondo?
«Ero davvero emozionata ma anche orgogliosa di essere su quel campo, a giocare davanti ai nostri tifosi, con la maglia celebrativa della mia squadra, il Milan, con una storia così importante e piena di trionfi. Insomma, ero eccitata ma, allo stesso tempo, preoccupata sapendo di dover degnamente portare avanti una tradizione così importante. Ero in un frullatore di sensazioni positive e stimolanti».
Lei è scappata da Herat nel Duemila, è passata dal Pakistan, poi dall’Italia, ha vissuto e studiato in Danimarca, dove le hanno dato la cittadinanza. Che cosa si ricorda della sua infanzia?
«Purtroppo ricordo tutto. Dopo l’assassinio di mio padre, io e la mia famiglia siamo stati catapultati da una situazione sicura e tranquilla al caos totale. Con mia madre e le sorelle, siamo rimaste intrappolate. Abbiamo fatto di tutto per resistere, per sopravvivere. Man mano diventava sempre più difficile avere qualche scampolo di vita normale».
Che avete fatto?
«Ci siamo organizzate per lasciare il Paese. Mia madre è stata una grandissima persona. Anche se abbiamo vissuto un incubo orribile, abbiamo avuto la fortuna di avere la guida di questa donna di straordinaria forza. Dio ci ha dato una seconda opportunità di vita».
Quando pensa al suo Paese, che cosa prova?
«Ho una irriducibile speranza che torni la luce su un luogo dove oggi regna l’oscurità, soprattutto per le mie sorelle, le donne afgane. Non bisogna mai perdere la speranza che questo possa accadere. Porto sempre con me questo sogno che le ombre si dissolvano. Alle donne afgane vorrei dire che la speranza è l’unica cosa che non vi potranno mai togliere».
Com’è stato il suo arrivo in Italia?
«Meraviglioso. Ho trovato una cultura differente, una lingua ignota, gente che vive in un altro modo. Ma il dovermi confrontare con tutto questo è stata una bella sfida. Ho imparato molto da questa esperienza e ciò mi ha fatto crescere come persona, come essere umano. Ho avuto la fortuna di conoscere bellissime persone, ho stretto grandi amicizie. In alcuni momenti è stato faticoso, ma doversi cimentare con una situazione nuova, uscire dalla propria comfort zone, non solo come essere umano, ma anche come giocatrice, mi ha spinto a migliorare».
Chi l’ha aiutata di più ?
«Sicuramente le mie compagne di squadra. Tramite loro, ho compreso che il popolo italiano ha una mentalità aperta e un grande cuore che rende facile alle persone nella mia situazione di sentirsi accolte. La squadra è stata una nuova famiglia».
La cosa più difficile in questa sua nuova vita italiana?
«Ho dovuto lottare per raggiungere certi traguardi, mi sono dovuta impegnare molto sia sul piano sportivo, sia per riuscire a integrarmi, avendo radici diverse. Ho dovuto imparare tutto da capo, cominciare a nutrirmi di una nuova cultura. E non è stato semplicissimo perché vengo da una storia dolorosa. In qualche momento ho pensato di non farcela, ma poi mi sono convinta che l’importante era andare avanti. Ho pensato che con l’impegno si riesce ad avere ragione delle difficoltà. Cosa che io e la mia famiglia, alla fine, abbiamo sempre fatto».
Le donne afgane sono sempre più segregate.
«Sì, provo grande angoscia. Sapere che le ragazze non possono andare a scuola, non possono fare sport, è devastante. L ’educazione è il pilastro di qualsiasi società e pensare che il 50 per cento della popolazione del mio Paese non sia autorizzata a imparare, a crescere e formarsi è pazzesco, è senza senso. La mia speranza è che in futuro le cose cambino, prima di tutto per le ragazze e le loro madri».
Che cosa le manca della sua terra?
«È tanto tempo che sono scappata, ma mi manca la mia gente: gli afgani sono un po’ come gli italiani, gente col cuore grande. Mi sento ancora una donna afgana, anche se sono così lontana. Magari un giorno riuscirò a tornarci, speriamo».
Come si vede nel futuro?
«Spero di andare avanti nei miei studi di medicina, di diventare una brava chirurga e di rendermi utile da qualche parte nel mondo. Il sogno sarebbe tornare a farlo in Afganistan, ma se così non sarà, andrò in un altro Paese. Voglio aiutare e mostrare agli altri empatia e gentilezza, doti che sono necessarie per costruire un mondo più giusto, dove tutti siano rispettati, soprattutto le donne».