Corriere della Sera, 10 dicembre 2024
Una piccola comunità di Testimoni di Geova nella valle del Vanói
Tre sono le passioni di Diego Leoni, storico trentino, saggista, autore di Zortèa (edizioni La Grafica), e precisamente la storia delle minoranze, la storia della montagna e la storia orale. Lo scrive nella prefazione del libro Quinto Antonelli, a sua volta storico trentino, autore di un gran numero di saggi, ricercatore presso il Museo storico trentino oltre che fondatore e direttore dell’Archivio della scrittura popolare di Rovereto.
Confluiscono nel libro di Leoni ben evidenti le sue tre passioni, essendo Zortèa un minuscolo paese di montagna, sperduto nella sperduta valle del Vanoi sull’estremo confine orientale della regione, sede di una inattesa e sorprendente minoranza che a noi figli del ventunesimo secolo non fa nemmeno sollevare un sopracciglio ma che all’epoca – gli anni tra le due guerre e non soltanto quelli – agì come un terremoto che scatenò conseguenze pesanti per i membri di tale minoranza. In più, la ricerca di Leoni si basa in gran parte sui racconti orali, raccolti tra i discendenti di quei «ribelli».
Il Paziente Zero si chiamava Narciso Stefenon che nell’anno 1933 rientrò dal Belgio dove aveva lavorato in miniera. Era allora l’emigrazione, soprattutto verso il Nord Europa, già iniziata negli ultimi anni del secolo precedente, pane quotidiano, sia stabile che stagionale, per i trentini, specialmente i contadini di montagna. Fenomeno acuitosi negli anni seguenti la Grande Guerra, quando la regione dall’Amministrazione austriaca passò a quella italiana, non certo facilitando l’esistenza a quei numerosi valligiani che avevano combattuto nelle file dei Kaiserjäger, gli alpini di Francesco Giuseppe, e per questo divenuti sospetti.
Rientrò dunque a Zortéa, Stefenon, e raccontò, probabilmente nel corso dei filò serali in stalle e fienili, ad amici e parenti di una nuova religione, quella vera più vera, della quale aveva appreso in Belgio e alla quale si era convertito, intenzionato a diffonderla il più possibile tra i suoi compaesani (ma non soltanto) con il supporto di materiale propagandistico che aveva portato con sé. E si mise a ri-evangelizzare conquistando un piccolo gruppo alla sua nuova fede, quella dei Testimoni di Geova che, negli anni del dopoguerra, con le immagini ancora vive dell’immane massacro di uomini e cose, sembrava una possibile ancora di salvezza: antimilitarismo, pacifismo, fraternità universale, avvento imminente della fine del mondo (tanto che alcuni convertiti non seminavano i campi perché convinti che non ne valesse più la pena) si rivelarono terreno fertile per le conversioni. Poiché uno degli obblighi dei Testimoni era (ed è) di fare proselitismo di porta in porta, la religione trovò seguaci anche fuori Zortéa, nel vicino un poco più grande Canal San Bovo.
S’inquietò – molto – il parroco, autorità non soltanto spirituale e geloso sorvegliante dell’ordine costituito, che vide assentarsi quel gruppetto dai tradizionali riti cattolici, dalle messe, dalle processioni, dai sacramenti come battesimo, cresima, matrimonio. E vide anche come la piccola comunità di montagna si lacerò poiché i Testimoni venivano sbeffeggiati e a volte anche minacciati dai compaesani che mal sopportavano la pretesa degli «eretici» di gettare via tutte le immagini di Madonne e Santi che per generazioni erano state portate in processione. Ancora di più si inquietò il parroco quando, nel tentativo di richiamare le pecorelle smarrite si sentì dire che la religione cattolica, i suoi riti, erano opera del diavolo e il Papa il diavolo stesso. Marchio che poi toccò anche al Duce.
S’inquietarono anche i carabinieri, forse informati dal parroco, forse ragguagliati sulla minuscola minoranza da qualche compaesano: in tempo di fascismo, quando i sacerdoti benedivano i cannoni e indicevano novene di preghiera per chiedere alla Madonna di annientare il nemico, una religione che ordinava, con tutt’altra veemenza di quella cattolica, di essere fratelli di tutti gli umani, di rifiutare la guerra, di non uccidere, non poteva non suscitare allarmi tra le autorità. Tanto più che la mala pianta incominciava a spuntare anche fuori regione e sempre tra piccole comunità di montagna, come in Piemonte e in Molise. L’emigrazione non era infatti una specialità soltanto trentina e dappertutto c’era chi tornava dall’estero, dalla Francia, dalla Germania, anche dall’America, con idee nuove, con nuova religione e con materiale di stampa sul quale, magari, qualche analfabeta aveva poi imparato a leggere. L’allarme non si fermò ai carabinieri ma salì su fino al prefetto di Trento e poi a Roma, a Mussolini. Il quale ordinò repressione.
Prima però si tentò con le buone di convincere i Testimoni ad abiurare. Tentativo che raramente ebbe successo, pur di fronte a minacce di punizioni pesanti, come la prigione, il manicomio (essendo gli eretici considerati pazzi) dove uno di loro in effetti fu rinchiuso, oppure il confino negli stessi luoghi nei quali erano relegati gli antifascisti, a Matera, a Pisticci, a Ventotene. Specialità degli eretici era infatti il loro rigore: un po’ come i primi cristiani non rinunciavano alla loro fede neppure quando si faceva concreta la prospettiva di finire male: lontani da casa per molti anni, spesso lasciando i famigliari, privati del loro lavoro, nell’assoluta miseria. E appena giunti a destinazione i più, secondo i dettami del loro credo, si dedicavano al proselitismo.
La persecuzione durò a lungo, fino ai primi anni Cinquanta; inutile dire che per alcuni Testimoni finì malissimo, qualcuno anche in un campo di concentramento tedesco.