Corriere della Sera, 10 dicembre 2024
Guido Carli raccontato dalla nipote Romana
La nipote dello statista che fu governatore della Banca d’Italia, ministro del Tesoro e senatore della Repubblica: scherzando lo chiamavo dottore, per vederlo telefonavo alla segretaria
«Quando arrivò la stagione drammatica degli anni di piombo gli consegnarono una macchina blindata. Ai miei occhi di bambina, allora avevo poco più di dieci anni, faceva davvero impressione. Gli sportelli sembravano più pesanti di quelli di un carrarmato e quei vetri erano così spessi… Nonno, che all’epoca del sequestro Moro era diventato da poco presidente di Confindustria dopo quindici anni da governatore della Banca d’Italia, ci annunciò la decisione di rinunciare alla scorta che gli avevano assegnato per motivi di sicurezza. La nonna Maria era molto preoccupata, la bisnonna Adelaide anche. Ricordo che se ne parlò tanto all’ora della colazione. Ma non ci fu nulla da fare. Nonno fu irremovibile».
Come mai?
«Diceva sempre “non voglio che gli italiani mi facciano le corna quando passo a sirene spiegate e, soprattutto, se devo saltare in aria preferisco farlo da solo. Perché dovrei far morire con me altre persone?”. Faceva parte, questo e tantissimi altri aspetti della sua vita incredibile, di un comportamento sempre improntato al massimo della sobrietà, di quell’inclinazione per lui irrinunciabile a rifiutare i privilegi. Si sentiva un cittadino come gli altri, semmai investito da maggiori responsabilità verso il bene dell’interesse collettivo. Maurizio Gagliardini, il suo autista storico, mi raccontò che all’aeroporto rinunciava a farsi lasciare da parte la carta d’imbarco e a saltare i controlli, come avrebbe potuto all’epoca in cui era ministro del Tesoro. Niente, sempre a fare la fila insieme agli altri al check-in. Capitava a volte che le persone in coda, riconoscendolo, gli tributassero un applauso spontaneo. Era un uomo molto amato».
Romana Liuzzo racconta il nonno Guido Carli, la cui vicenda umana e istituzionale è uno dei tasselli decisivi del primo mezzo secolo di storia repubblicana. Dopo un pezzo di vita passato in alcune delle redazioni più importanti d’Italia, la giornalista adesso è l’anima e la presidente alla Fondazione che porta il nome del nonno, ministro del Commercio con l’estero alla fine degli anni Cinquanta, governatore della Banca d’Italia dal boom economico al culmine degli anni di piombo, poi presidente di Confindustria, ministro del Tesoro, due volte eletto al Senato nelle liste della Democrazia cristiana e fondatore dell’Università Luiss, a lui intitolata.
Il suo primo ricordo con suo nonno?
«Lo ricordo ancora con terrore. Dicembre 1969, non avevo neanche quattro anni. Un pomeriggio mi ritrovo col vestito delle grandi occasioni, quello di velluto blu con il colletto bianco, e le scarpe di vernice. Le sue mani mi sollevano da terra e lui annuncia: “Adesso Romana recita la poesia, la poesia di Natale”».
Perché così terrorizzata di un ricordo familiare?
«Perché non eravamo a casa, ma alla Banca d’Italia. L’enorme tavolo sul quale mi mise in piedi era davanti a più di duecento dipendenti. A me, che ero timidissima, sembrarono trentamila. Ma forse, senza quello shock, adesso sarei una persona diversa».
La prima cosa che viene in mente del Guido Carli pubblico?
«Lo faceva ridere che, per scherzare, lo chiamassi sempre il “dottor Carli”. La sera mi accoccolavo ai piedi del suo letto, il nostro rituale quotidiano per scambiarci confidenze. Ma quando avevo bisogno di incontrarlo di giorno per qualche consiglio importante, prendevo appuntamento tramite la mitica signora Berni, che è stata sua affezionata e fedele segretaria per tanti anni. Nella sua stanza ho visto entrare e uscire Carlo Azeglio Ciampi, Giulio Andreotti, l’avvocato Agnelli, con cui diede impulso alla fondazione della Luiss; oltre a Eugenio Scalfari, con cui era molto amico. Telefonate o incontri a cui ho assistito che per me sono stati una scuola di vita».
In famiglia eravate a conoscenza che ci fosse suo nonno dietro lo pseudonimo Bancor, che in quegli anni firmava importanti e informatissimi articoli economico-finanziari sui giornali di Scalfari?
«Credo non ne fosse a conoscenza nessuno se non loro due, mio nonno e Scalfari. L’editoria e il mondo dei giornali lo incuriosivano tantissimo. Era un lettore attento dei quotidiani nazionali e internazionali. E trascorreva molto tempo a conversare con mio marito Massimo (Massimo Dell’Omo, già firma di Repubblica, scomparso quattro anni fa, ndr)».
Il vostro rapporto nonno-nipote?
«Era fatto di sguardi e di ironia. Dopo essere stata nominata Miss Roma, lo provocai: “Dottor Carli, se andassi al concorso per Miss Italia?”».
E lui?
«Come al solito mi rispose “e perché no?”. Era il suo modo per responsabilizzarmi. Non avevo alcuna intenzione di andarci e infatti non andai. Mio nonno non dava consigli a parole, per lui contava esclusivamente l’esempio».
La nipote di Guido Carli in concorso a Miss Italia avrebbe generato decine e decine di articoli, ovunque.
«Certamente sì. Ma non c’era questo pericolo: avevo già deciso che avrei fatto altro nella vita. Restava comunque il piacere di provocarlo. Anche sulla politica».
In che modo?
«Una volta gli dissi che a diciotto anni il mio primo voto sarebbe andato al Partito comunista. Un’altra gli chiesi se erano vere tutte le cose che si scrivevano a proposito di Giulio Andreotti, nel cui governo sarebbe poi diventato ministro del Tesoro».
Che cosa le rispose?
«Mi disse che Andreotti era una brava persona e un bravo politico. E che però a volte si circondava di persone che non lo erano altrettanto».
Quali erano le passioni private di Guido Carli?
«Tutto quello che faceva era orientato dalla ferrea convinzione che il tempo fosse una risorsa da non sprecare. Una volta, al ritorno da un viaggio, lo trovai che leggeva Tolstoj in lingua originale. “Tra le lingue che parlo, il russo è quella che conosco meno”, mi disse. Si era ripromesso di iniziare a studiare anche il cinese».
Passioni cinematografiche?
«Una in particolare: Totò. Dopo i pranzi domenicali nella casa di campagna era tradizione, insieme con le pastarelle, la visione dei suoi film con tutta la famiglia».
Com’era dentro casa?
«Nelle case in cui viveva, quella romana di piazza Borghese 3 dove ha sempre pagato l’affitto anche quando gli sarebbe spettata gratuitamente e quella di campagna a Grottaferrata, non c’era traccia di sfarzi o di lussi. Ricordo che lessi sul giornale che era il primo contribuente italiano e, molto sorpresa, gli chiesi spiegazioni. “Non il più ricco, solo onesto”, sorrise lui. La prima televisione a colori che comprò decise di metterla in cucina a beneficio dei domestici, perché “chi lavora deve anche potersi distrarre”. Quando mi iscrissi al Liceo Mamiani, a Roma, all’inizio per me fu faticoso: non fumavo né sigarette né canne, non mi piaceva partecipare alle assemblee. Per questo era capitato che mi prendessero in giro e che mi buttassero vestita nella fontana. Ma fu solo per i primi mesi, poi entrai in sintonia con tutti perché ero anche secchiona e aiutavo i compagni».
Andò a lamentarsi con gli insegnanti?
«Ma figuriamoci. No. Mio nonno mi prese da parte e mi disse: “Essere diversi o considerati tali ti dà solo più forza: la forza delle tue idee. Vuoi essere un soldato semplice o un condottiero?”».
Consigli economici non gliene ha mai dati?
«Uno su tutti: non comprare mai le cose a rate “perché poi ti trovi lo stipendio dimezzato”».
Altre stranezze?
«Quando aveva qualche piccolo diverbio con la nonna e usciva, noi pensavamo che rimanesse a digiuno. Invece si faceva ospitare a casa del suo autista Maurizio, con la moglie che gli preparava le pappardelle al ragù».
C’è qualcosa che ha scoperto di suo nonno che non sapeva, in tutti questi anni di guida della Fondazione Guido Carli?
«Durante un’udienza privata, Papa Francesco mi rivelò dell’amicizia di nonno con Papa Montini, che ogni tanto avevo visto in casa scambiandolo per un parroco amico e nulla di più. Venivano entrambi della provincia di Brescia e le loro famiglie erano legate da un’antica amicizia».
Il suo ultimo ricordo di lui?
«La telefonata che mi fece il giorno del mio compleanno, il 21 aprile 1993. Due giorni dopo morì, a Spoleto. Già non stava bene ma nulla lasciava presagire che ci avrebbe lasciato così presto».
Che cosa vi diceste?
«Mi disse: “Romana, sei la mia nipote prediletta”. Forse perché ero la prima di sette nipoti, forse perché avevo vissuto tanto con loro. Da quel momento giurai a me stessa che la sua lezione non sarebbe andata perduta e che il mio compito sarebbe stato uno solo: fare memoria».