Corriere della Sera, 10 dicembre 2024
Biografia di Nadia Nadim
Da navigata professionista quale è, Nadia Nadim ha scelto l’occasione perfetta per sbloccarsi con la maglia del Milan: il derby di domenica contro l’Inter a San Siro. Uno a uno il finale contro le (favorite) nerazzurre, ennesima soddisfazione di una carriera da oltre 200 gol impossibile anche solo da immaginare nell’Afghanistan degli anni Novanta. Da quell’inferno la classe 1988 riuscì a fuggire all’età di 12 anni con la mamma e le quattro sorelle a seguito della morte del padre, generale dell’esercito assassinato dai talebani per via dei suoi legami con l’esiliato governo di Burhanuddin Rabbani. Una sorta di cerchio che si è chiuso, se è vero che proprio da Milano la numero 9 rossonera transitò nel rocambolesco viaggio che al tempo la condusse in Danimarca. Il Paese che ha sempre rappresentato a livello internazionale, nel quale due anni fa ha conseguito la laurea in Medicina e che soprattutto le fece capire che il diritto allo sport poteva essere declinato anche al femminile.
Nadim, che emozione è stata segnare al Meazza?
«Enorme, tanto è vero che poi la notte non ho chiuso occhio per l’adrenalina. Sono ancora stanchissima! Avevo già giocato in stadi come il Parken o il Parco dei Principi, ma in uno così grande mai».
Rientrerà quindi tra i gol che non dimenticherà?
«Assolutamente. La squadra ed io abbiamo passato mesi difficili, ora non vogliamo più fermarci».
Ma a quasi 37 anni e con oltre 200 reti all’attivo, da dove trae ancora le motivazioni?
«Come sempre dalla fame di arrivare e dall’amore per il gioco: è questa la combinazione vincente. D’altronde la mia vita non è mai stata rose e fiori. Le cose ho dovuto meritarmele con perseveranza, nessuno mi ha regalato nulla».
Ecco: se nel campo profughi in cui a 12 anni vide che anche le ragazze potevano giocare a calcio qualcuno le avesse detto che un giorno avrebbe segnato in una partita del genere, lei come avrebbe risposto?
«Di sicuro gli avrei dato del pazzo, però è anche vero che non mi sono mai posta alcun limite. E all’epoca sognavo di calcare proprio simili palcoscenici».
E mamma Hamida (morta due anni fa in un incidente stradale, ndr) come avrebbe reagito?
«Di certo con l’emoji delle fiamme (ride), com’era solita fare nella chat di famiglia. Era orgogliosa di me, sapeva quanti sacrifici avevo fatto. Oggi non passa partita senza che io guardi verso l’alto, dove ora si trova insieme a papà».
A proposito di famiglia, questo è stato anche il suo primo gol da sposata: lo dedica al marito?
«No, a me stessa per aver finalmente infranto quella che per me era diventata ormai una maledizione. Ma mi lasci aggiungere una cosa».
Prego.
«Famiglia per me significa anzitutto stare con le persone a cui tengo. Questo a Milano sta succedendo con le mie compagne di squadra. Mi vogliono bene, quando abbiamo un giorno libero usciamo insieme».
La carriera da chirurgo può dunque aspettare?
«Sì, perché mentre prima di laurearmi conciliare lo studio con il calcio era possibile, ora fare della medicina il mio lavoro richiederebbe un impegno a tempo pieno. Ma avrò modo di pensarci».
Un suo consiglio alle donne ancora oggi escluse dalla pratica sportiva, come lei prima di arrivare in Europa.
«Il mio motto è “dream big”: sognate in grande. Per cui mantenete una mentalità positiva. Cercate di trovare la luce anche nelle ore più buie. Parlo per esperienza personale. Perché ciò che nessuno potrà mai togliervi è la speranza di avere, un giorno, degli strumenti utili a cambiare la vostra vita».