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 2024  dicembre 10 Martedì calendario

In Siria ci sono 4 fronti ancora aperti

La guerra non è ancora finita in Siria, restano aperti molti fronti da Nord a Sud.
L’operazione condotta ieri dal Pentagono contro gli jihadisti è servita a prevenire mosse e a ribadire l’impegno americano. Almeno 75 i target presi di mira da bombardieri B-52, A-10 e caccia, da valutare gli esiti. Il Comando centrale, così come chi segue la crisi, è consapevole di una minaccia continua. Nell’ultimo anno i militanti hanno rivendicato quasi 260 attacchi, oltre il doppio rispetto all’anno precedente. È probabile che siano molti di più. 
Un interessante studio ha sottolineato alcuni aspetti della realtà radicale: ha intensificato l’attività nel deserto di Badya e nel cosiddetto «triangolo delle Bermude», al confine con l’area curda. Molti ordigni sulle strade, guerriglia, imboscate. Recluta attentatori suicidi nei campi profughi, attira volontari. Gli eredi del Califfato hanno rimesso in piedi la rete di finanziamento con estorsioni, «tasse», traffici. 
Indagini in Europa hanno poi rivelato che diversi simpatizzanti sono stati ispirati da terroristi basati in Siria, gesti individuali che rappresentano segnali da non sottovalutare. Per questo Washington non ha mai smesso di effettuare strike aerei e incursioni in appoggio ai curdi. 
Le intelligence temono ora che l’ex Isis possa cavalcare i problemi del post Assad. Riempiendo vuoti lasciati dai lealisti, impadronendosi di materiale bellico, sfruttando i contrasti tra le diverse componenti dell’insurrezione. 
I guerriglieri Sna che sono a libro paga di Ankara, non hanno perso tempo per lanciare un’offensiva su Manbij nell’intento di eliminare la presenza dei curdi parte, insieme a gruppi arabi, dell’Sdf, coalizione alleata degli americani nel contrasto dell’Isis. Dopo violenti scontri, con perdite, è stata annunciata un’intesa grazie alla mediazione americana: i «curdi» si sarebbero ritirati dalla parte centrale e dovrebbero farlo progressivamente anche dai settori a est. Vedremo se non sorgono intoppi. 
La partita è come una bomba a tempo. Erdogan è nella posizione di poter dettare alcune condizioni sull’assetto futuro mentre, nello stesso tempo, muove per annullare le aspirazioni di libertà del Kurdistan siriano. Intanto ha ordinato la riapertura del punto di confine di Hatay, chiuso nel 2013, per favorire il ritorno dei profughi. 
Siamo in una fase dinamica dove si susseguono le ricostruzioni sull’uscita di scena di Assad. L’ultima racconta che tutto sarebbe stato deciso il 7 dicembre durante il summit a Doha (Qatar) dove Teheran e Mosca avrebbero concordato con la Turchia l’epilogo. In questa soluzione pilotata, secondo uno scenario, ci sarebbe la possibilità per Mosca di mantenere alcune delle sue basi sul territorio siriano. 
L’Opcw, l’organismo internazionale dedicato al controllo delle armi chimiche, ha invitato le nuove autorità a mettere in sicurezza i «gas» che l’esercito aveva in apparenza conservato. Pare siano «quantità importanti». Gli stessi ispettori ne avevano accertato l’uso da parte di Damasco in diverse occasioni. 
Sarebbe un disastro se una fazione, non importa il colore, riuscisse a impossessarsi degli equipaggiamenti. Da giorni sia gli Usa che Israele hanno espresso preoccupazioni e Tel Aviv, domenica, ha lanciato uno strike che – secondo la sua versione – ha neutralizzato uno di questi depositi. 
Un intervento unito all’allargamento di una zona cuscinetto sul versante siriano del Golan, passo che ha provocato proteste internazionali (ne riferiamo in un altro articolo del giornale, ndr). 
Il movimento palestinese si è subito congratulato con i ribelli per la vittoria e ha auspicato che i siriani serrino i ranghi per affrontare le prove difficili che li attendono. Le felicitazioni rispecchiano una posizione nota da parte di Hamas che, nonostante il vincolo con Teheran (principale alleato di Assad), non ha mai nascosto la propria solidarietà con gli oppositori. 
Una scelta che gli ayatollah, per quanto irritati, hanno accettato per salvaguardare l’asse con la causa palestinese. Ben diverso il giudizio dell’Hezbollah ora privato della retrovia più importante. I vertici della guerriglia libanese parlano di fase «pericolosa»