Corriere della Sera, 10 dicembre 2024
Tutta la Siria sta andando a Sednaya
Tutta la Siria sta andando a Sednaya, il macello degli umani. Famiglie intere, in 5 su una motocicletta, vecchi aggrappati ai furgoni, donne in automobile, ma poi, siccome l’unica strada che porta al carcere degli incubi è un serpente di lamiera immobile, con le automobili incollate l’una all’altra, si prosegue a piedi. Per chilometri.
I l carcere dei prigionieri politici degli Assad è lassù, sulla collina.
«Non doveva essere rosso?» chiede qualcuno. Non ci sono mai stati, non hanno mai avuto il coraggio neppure di passarci davanti facendo finta di niente. Per anni la paura è stata troppo grande. E ora che sembra si possa fare qualunque cosa, ora che è arrivata la rivoluzione, ora che il dittatore non c’è più e migliaia di kalashnikov sono usciti dalle soffitte e dalle caserme, ora, con il mitra in mano, tutti si sentono padroni. Lo portano per la canna come un bastone da tirare al cane e sarà per il kalashnikov o sarà perché nessuno ha cominciato a fare la voce grossa, fatto sta che soltanto adesso la Siria ha trovato il coraggio di percorrere quei trenta chilometri che separano Damasco da Sednaya.
A Sednaya è stato incarcerato o è morto almeno un membro di ogni famiglia della Siria. A migliaia non ne sono mai usciti. Così un figlio va a cercare nei registri strappati il nome del papà che non ha mai conosciuto. Una mamma entra in una cella e si accascia: sente lo spirito del figlio ancora gridare per il dolore. A un padre si ghiaccia il sangue, allaccia il piumino e sostiene, convinto, che dev’esserci qualcosa nei muri, qualche diavoleria degli Assad, per far morire di freddo i prigionieri. Non può esserci altra spiegazione visto che è successo a suo figlio. L’aveva cresciuto forte e quando è arrivata la lettera del decesso non riusciva a crederci. «Morto per cause naturali. Complicanze da polmonite».
Le torture del regimeLa routine del carcere era semplice. Torture e botte, fame e freddo, la ricetta del regime per spezzare la volontà di un popolo. «Nel 2011, all’inizio della primavera siriana, finivi in prigione solo per partecipare a un corteo. E allora ti picchiavano a sangue, ti pigiavano in dieci in una cella di 3 metri per tre, ma poi ti rilasciavano». Ali Nasser Youssef racconta i suoi tre mesi di «rieducazione a Sednaya» che l’hanno convinto ad arruolarsi in Al Qaeda.
Il palazzone è bianco (non rosso, quello era solo il nome del settore destinato alle celle), con finestrelle minuscole che danno sui corridoi, circondato da barriere, mura, fossati e centinaia di chilometri di filo spinato. Dentro è un carcere come tanti, con le serrature dei raggi comandate a distanza, lo spiazzo per l’ora d’aria e le torrette dei secondini. Poi però c’è la stanza della pressa. Dicono servisse a schiacciare i corpi, vivi o morti. Ci sono i sacchi delle corde rosse. Dicono per impiccare i prigionieri, per appenderli dalle mani o dai piedi. Nelle celle, anche quelle di riguardo, con il bagno annesso, si dormiva per terra, in 50. Il Covid qui ha fatto una strage. Dei 20 mila prigionieri ne sono morti la metà.
Il pane nelle bucheUn agente dell’intelligence dei ribelli venuti da Idlib ha interrogato il panettiere che lavorava nel carcere. «Faceva 15 mila sacchetti di pane. Alcuni, ha testimoniato, li buttavano in una buca nel pavimento profonda 15 metri. Là sotto dovevano esserci le celle segrete di cui parlano tutti, altrimenti perché sprecare il pane?». Un altro mostra sul cellulare il filmino di una sala di controllo. Si vedono un centinaio di visori che inquadrano altrettante celle. «Dove sono? Aiutatemi a trovarli, dove sono?». Una donna riferisce che qualcuno le ha raccontato che quando sono arrivati i ribelli ad aprire le celle, ha sentito grida di aiuto provenire da sotto il pavimento. «Mio figlio non è tornato assieme agli altri, dev’essere là, vi prego per la grazia di Allah, aiutatemi a trovarlo». La notizia non c’è. Non si sa se le celle segrete esistano oppure no. Non si sa se centinaia di prigionieri stiano soffocando nei sotterranei perché le guardie prima di andarsene hanno spento i sistemi di ventilazione. Non si sa neppure se è vero che si stia cercando di far venire il tecnico di una ditta tedesca che ha venduto i sistemi di controllo al regime. Ma quel che sicuramente è reale, palpabile, concreta è la psicosi delle celle segrete. Tutti ci credono, tutti sperano, vogliono mantenere viva la fiammella della speranza contro ogni logica.
Lui non è tornato con gli altri, non perché è morto, ma perché è in una cella misteriosa. «Cercate, cercate, mio marito potrebbe essere là sotto». Arrivano le scavatrici, le ruspe. Con la folla a mezzo metro, buttano giù un muro, scavano in un punto del cortiletto, poi in un altro. Riescono a trovare un passaggio. Un coraggioso si offre di entrare con la torcia del telefonino. Niente. Il tunnel non va avanti, c’è il cemento armato. E allora ecco un ex prigioniero che arriva a dare indicazioni precise. «Durante l’ora d’aria mi ricordo benissimo che sentivo le urla arrivare da là sotto». Un’altra pala meccanica entra in azione. L’incubo del carcere «politico» di Sednaya continua a creare mostri nelle menti dei siriani.
Una donna velata ha notato le riprese del telefonino. «Mi scusi, può cancellarle?». È a Sednaya, una prigione abbandonata da un regime che non c’è più, ma non vuole lasciare tracce. E se Assad tornasse? Cinquant’anni di dittatura sono difficili da metabolizzare in due giorni. La gente resta in allerta. Cos’è tutta questa libertà? Come mai non ci dicono cosa dobbiamo fare, dove non possiamo entrare, come non possiamo piangere?
«Chiunque è entrato qua dentro ha il cuore paralizzato – spiega Uday —. Io voglio almeno vedere con i miei occhi quel che ha visto mio padre prima di essere ucciso».
Corridoi infiniti, porte arrugginite, sotterranei che trasudano muschio e celle dove ancora rimangono le sottili coperte che facevano da materasso su un pavimento di cemento gelido.
La speranzaQualcuno vede aprirsi un vuoto nella terra sotto l’azione della ruspa. «Eccolo, è il piano segreto, l’abbiamo raggiunto». La voce vola fuori dal cortile, sui tetti, nei corridoi. In un attimo la «notizia» diventa «li hanno trovati, ci sono prigionieri vivi nei sotterranei e stanno uscendo». Partono gli spari in aria. Due, tre raffiche di kalashnikov dal tetto, altri rispondono dalla strada. Rattattattatà, rattattatatà, così sembra una festa. Quelli che ancora arrancano sulla salita si mettono a correre, chi stava andandosene torna indietro. «Sono sono ancora vivi». Non è vero, ma per un momento ha pompato adrenalina come per una resurrezione.