Corriere della Sera, 10 dicembre 2024
Avremo un regime talebano sul Mediterraneo?
Dalla caduta di Assad nascerà un regime talebano sul Mediterraneo? Passata l’euforia per la fuga del despota sanguinario, dobbiamo temere il fondamentalismo a Damasco? Vedremo un bis dell’Afghanistan – a cominciare dai diritti delle donne calpestati – vicino alle coste europee? Questi interrogativi si affollano in Occidente. Da alcune parti Assad è già descritto come un altro Gheddafi: un dittatore da rimpiangere, visto quel che è venuto dopo.
Gli interrogativi si concentrano sulla figura di al Jolani, il capo della milizia Hayat Tahrir al-Sham (Hts) che ha cacciato Assad. Viene dal mondo della jihad, anche se afferma di aver preso le distanze e ha combattuto l’Isis. In una campagna di relazioni pubbliche, con interviste a Al Jazeera e New York Times, al Jolani ha cercato di rassicurarci. Ha promesso di rispettare le minoranze, in quel crogiuolo etnico e religioso che è la Siria (oltre ai sunniti ci sono musulmani sciiti, drusi, cristiani). È un’abile tattica per consolidare la vittoria, dopodiché getterà la maschera?
La «riabilitazione» di Assad come fattore di stabilità è inaccettabile. È una narrazione fomentata da fonti interessate: i grandi perdenti. La Russia ha subito un’umiliazione cocente, incapace di difendere un alleato-chiave in Medio Oriente; Putin ha dovuto ritirare i suoi militari e le sue navi dall’unica base (siriana) che aveva nel Mediterraneo. L’altro sconfitto è l’Iran, protettore di Assad.
T eheran perde un corridoio terrestre con cui forniva armi a Hezbollah in Libano; perde un pezzo dell’Asse della Resistenza, come gli ayatollah chiamano il fronte anti-Israele e antioccidentale da loro manovrato. Lo zar Putin e l’ayatollah Khamenei pagano il prezzo delle loro folli offensive, contro l’Ucraina e contro Israele. Due imperialismi regionali, russo e persiano, retrocedono. Le conseguenze sul loro prestigio saranno sentite anche altrove: come accadde all’America di Biden dopo la disastrosa ritirata da Kabul nell’agosto 2021.
Due attori esterni hanno giocato un ruolo nella caduta di Assad. Israele ha decapitato Hezbollah e ha inflitto colpi umilianti all’Iran, dimostrandone l’inferiorità militare. L’America è più defilata però non è stata a guardare, ha 900 soldati in Siria, appoggia i curdi, bombarda regolarmente l’Isis (quello «nemico» di Al Jolani), e alla Cia si attribuisce un sostegno dietro le quinte per l’avanzata di Hts. Ma non esageriamo il ruolo dell’Occidente, in una vicenda che ha prima di tutto cause interne alla Siria e al mondo arabo. Ecco cosa scrive un osservatore arabo, Rami Khouri, sul sito di Al Jazeera :
«La Siria sotto gli Assad non è stata né un caso unico né l’opera di poche canaglie locali. È un esempio dell’eredità diffusa del potere statale arabo autoritario, spesso violento, che ha devastato la regione e umiliato i suoi popoli per mezzo secolo... Il regime Assad è stato il governo autocratico più longevo della regione araba, basato su forze militari, sostenuto da potenze straniere e ancorato a una famiglia, che ha devastato il suo popolo, l’economia e l’integrità nazionale. L’esperienza siriana rivela tutte le caratteristiche debilitanti dell’autocrazia araba, che persistono ampiamente e devono essere estirpate dalle nostre società. Queste includono la mancanza di un pluralismo genuino e di istituzioni partecipative credibili; un potere verticistico ancorato alla brutalità militare e poliziesca, all’incarcerazione di massa, alla tortura e alla morte; una pianificazione economica centralizzata che genera corruzione tra le élite e profonde disuguaglianze nel livello di vita in tutto il Paese».
È un’analisi severa. Ha il pregio dell’onestà: evita quella scorciatoia ideologica che cerca un capro espiatorio altrove: Israele, l’America, l’Occidente. C’è un problema arabo che finora gli arabi non sono riusciti a risolvere, con qualche eccezione recente sul Golfo. Le opinioni pubbliche occidentali in passato si sono innamorate di tante rivoluzioni: il socialismo terzomondista di Nasser in Egitto nel 1952, la rivolta contro lo Scià in Persia nel 1979, le Primavere arabe dal 2011 in poi. La caduta di Assad chiude proprio l’ultimo capitolo delle Primavere arabe, scambiate da Barack Obama come un’avanzata della democrazia. Invece alla cacciata dei tiranni è spesso seguita un’egemonia fondamentalista; poi una ricaduta sotto autocrati o generali. Il problema è la debolezza della componente laica e liberaldemocratica. L’Occidente deve fare un bagno di umiltà e di realismo: possiamo aiutare le forze della tolleranza e del pluralismo, dove esistono, non possiamo costruirle noi.
Al Jolani ha bisogno di alleati. Ha già un protettore in Erdogan, indaffarato a ricostruire una sfera imperiale ottomana in rivalità con gli imperi russo e persiano, in un remake delle antiche competizioni. L’Occidente e soprattutto l’America con la sua presenza siriana, ha interesse a dialogare con lui in modo pragmatico – anche se finora la sua milizia Hts è sulla lista delle organizzazioni terroristiche – per cercare di influenzare le sue scelte. Ben sapendo che questa fase è instabile, potrebbero emergere altri attori nel controllo della Siria.
Persa l’illusione di una politica estera moralista, sconfitte le velleità di esportare diritti umani e democrazia in società dove non hanno delle vere constituency locali, l’Occidente dovrà giudicare Al Jolani in base ai propri interessi vitali e alla propria sicurezza: conviene evitare nuove ondate di profughi dalla Siria verso l’Europa; è essenziale che i nuovi padroni di Damasco non esportino jihad e terrorismo. Se alle parole di Al Jolani seguiranno i fatti, sarà giusto aiutare la Siria. Cosa che peraltro non abbiamo mai smesso di fare. Anche nei momenti più bui della dittatura Assad, l’Onu è rimasta a Damasco. I suoi aiuti umanitari erano finanziati in prevalenza dall’Occidente. Non da Mosca né da Teheran