il Giornale, 9 dicembre 2024
Al Jolani si traveste da moderato
D opo essere arrivato a Damasco, Abu Mohammed al Jolani si è inginocchiato prostrandosi ad Allah in segno di ringraziamento. Le immagini hanno fatto il giro del mondo e rappresentano l’incipit del nuovo corso siriano dopo la precipitosa fuga di al Assad a Mosca. Al Jolani (dall’arabo colui che viene dalle Alture del Golan), leader di Hts, acronimo di Hayat Tahrir al Sham (Commissione per la liberazione della Siria) è una sorta di trasformista della galassia jihadista. È un uomo che ha saputo adeguarsi alle varie stagioni dell’integralismo islamico. Un camaleonte che in virtù delle proprie abilità è rimasto a galla, fino a prendersi la Siria.
Nato nel 1982 a Riyadh, in Arabia Saudita, dove suo padre lavorava come ingegnere petrolifero, tornò in Siria nel 1989, stabilendosi ad Al Kiswah, una manciata di chilometri a Sud di Damasco. Nel 2003 si trasferì in Irak, per sposare la causa di Al Qaida. Arrestato nel 2006 e trattenuto per cinque anni, diede vita alla cellula siriana qaidista, il Fronte al Nusra, molto attivo a Idlib. A quel punto decise di cambiare bandiera, stringendo un’alleanza con Al Baghdadi, capo supremo dell’Isis, e ricevendo finanziamenti e uomini.
Al Nusra era ritenuto uno dei gruppi militarmente più efficaci e ideologicamente più estremi dell’opposizione ad Assad. Nei primi anni della guerra civile siriana, iniziata nel 2011, Al Jolani e i suoi accoliti avevano infatti in mente di creare uno stato basato
su una rigida interpretazione della sharia. L’uomo del Golan iniziò tuttavia a temere gli atteggiamenti sempre più feroci e imprevedibili di Al Baghdadi, smarcandosi dall’Isis e convertendo Al Nusra in Hts, organizzazione, almeno sulla carta, meno radicale. Una trasformazione dettata anche dal timore di essere bersaglio dei bombardamenti Usa (che consideravano Al Nusra un gruppo terroristico) e della Russia (poiché milizie di opposizione ad Assad). Nel 2016 l’esercito regolare riconquistò Aleppo, e Al Jolani decise di stabilire la sua roccaforte a Idlib, costituendo una vera e propria enclave all’interno della Siria, con tutte le funzioni di un governo regionale (dalla riscossione delle tasse, alla gestione di sanità e scuola). Contestualmente cominciò anche un’operazione di normalizzazione diplomatica con le forze confinanti, partendo dalla Turchia, e con i gruppi curdi che controllano parte del Nord-Est del Paese.
Arriviamo così alla fine di novembre, quando grazie all’appoggio incondizionato di Erdogan, gli insorti sono usciti da Idlib per dar vita all’operazione «Deterrenza dell’aggressione», costringendo le truppe governative a una ritirata precipitosa e mandando in frantumi anni di conquiste militari ottenute grazie al sostegno di Russia, Iran e da gruppi legati a Hezbollah, indeboliti da Israele nel recente conflitto di Gaza.
E adesso cosa accadrà? Al Jolani ha spiegato che «indietro non si torna». Si ritiene «un moderato», ha confermato la fiducia al premier in carica Ghazi al Jalali, e inizierà una fase di consultazioni con Ankara. Il suo insediamento preoccupa però l’Occidente e potrebbe sgretolare equilibri già di per sé traballanti. Washington, che è alleata di Erdogan, lo considera un terrorista: non a caso sulla sua testa pende una taglia da 10 milioni di dollari. Ma Guterres (Onu) parla di «opportunità»