La Stampa, 9 dicembre 2024
Biografia di Serena Rossi, attrice
Il ciuffo alla Crudelia Demon. La gobba. Le rughe. Persino i denti storti. Per riconoscere Serena Rossi nella serie tv Uonderbois occorre qualche minuto: «La Vecchia» (questo il nome del suo personaggio su Disney+) è anni luce distante dall’eroica Mina Settembre, che corre per Napoli con il suo cappottino rosso. Per l’attrice si tratta del suo primo ruolo da cattiva, che si va ad aggiungere a un’altra sfida: il ruolo drammatico nel film Il treno dei bambini, disponibile su Netflix.Una doppietta che tradisce il desiderio di esplorare nuovi territori?«Spero che questi due titoli facciano da apripista spingendo chi mi ha sempre visto sotto una certa luce a cambiare idea. C’è la tendenza ad affidare agli attori solo i ruoli più congeniali e sicuri. È stato grazie a Pierfrancesco Favino se questa mentalità è iniziata a cambiare».All’inizio, però, solo per gli uomini?«Come al solito il turno delle donne arriva dopo, ma fa niente: l’importante è accorciare sempre di più i tempi. Ora ci siamo anche noi: penso per esempio a Vanessa Scalera in Qui non è Hollywood. Mi piace l’idea che le nuove generazioni possano beneficiare delle nostre battaglie».Per le attrici la vecchiaia è un diritto ancora da conquistare?«Io quel lusso me lo sono andata a prendere e lo rivendico, perché vuol dire rispettare se stesse. Non ho nessuna intenzione di rifarmi la faccia: non voglio omologarmi. Non desidero essere uguale alla me stessa ventenne e nemmeno alle altre colleghe. Il che non vuol dire trascurasi: mi riempiono di creme, ma i segni del tempo li lascio lì dove sono».Quindi non è stato destabilizzante vedersi anziana?«A parte i denti storti, se divento come La Vecchia ci faccio la firma».Un altro consiglio che ha scelto di non rispettare più?«Nascondere la mia napoletanità. All’inizio ho dovuto, per dimostrare di sapere fare altro oltre all’attrice legata alla sua terra. Ora che è chiaro a tutti, sono tornata a fare quello che mi piace. Parlerò di Napoli pure nel mio spettacolo teatrale SereNata a Napoli, al via a marzo dal teatro Colosseo di Torino».Com’è stata la sua infanzia campana?«Vengo da un quartiere borderline, vicino a Scampia. Sono cresciuta giocando per strada, con i miei cugini e gli amici del circondario. I miei però mi hanno educato fin da subito all’arte e alla musica: papà suonava, mamma è stata una delle prime speaker delle radio libere, mio nonno scriveva canzoni. Così a 13 anni sapevo già cosa volevo fare: adoravo cantare e ballare, a Natale obbligavo tutti i parenti a fare uno spettacolo, mettevo le pellicole attorno alle lampade per fare le luci colorate».Il successo l’ha mai travolta?«Mai e questo perché ho sempre visto i miei genitori dare valore al lavoro, ai sacrifici e quindi di riflesso alle conquiste. Mio nonno è arrivato dal Molise a Napoli e ha ricostruito un intero paese distrutto. Mia nonna mi era di esempio anche nelle piccole cose, come quando si rifiutava di buttare l’apribottiglie arrugginito: “Funziona ancora”, ripeteva».Sua nonna era una delle bambine che nel ’46 ha preso il treno per il Nord, separandosi dai genitori. Ha visto il suo film su Netflix?«Sì, e ha pianto dal minuto uno perché si è rivista. Si è commossa anche quando nei titoli di coda, accanto al mio nome, è apparsa la sua foto».Ha definito quel treno “una staffetta d’amore, una storia di solidarietà dimenticata”. Sull’accoglienza sono stati fatti passi indietro?«Non è un gran momento e me ne sono accorta leggendo i commenti a quella frase. Alcuni hanno usato le mie parole come pretesto per tirare fuori la propria rabbia quando invece io parlavo solo dell’umanità di un Nord e di un Sud che si tendono la mano per aiutarsi. Non ho pensato all’origine politica dell’iniziativa ma al cuore grande di quelle persone».È vero che non può girare per Napoli con il cappotto rosso?«Mi fermano tutti! È pazzesco: mi associano subito a Mina Settembre. La gente la ama proprio perché è una donna che accoglie il prossimo: è un balsamo per il cuore».A un certo punto sembrava non volesse più interpretarla: perché?«Mi sono solo presa un anno sabbatico. Mina Settembre implica sei mesi di set e io avevo bisogno di rallentare, fare altro, stare con la mia famiglia. Ma non la lascio: la amo troppo».La prossima sfida?«Mi piacerebbe organizzare un concerto a Napoli con tutti gli artisti che, come me, sono cresciuti nei quartieri malfamati: Geolier, Gigi D’Alessio... Ne voglio parlare con il sindaco perché è importante dimostrare ai ragazzi quanto l’impegno e i sogni permettono di riscattarsi».L’infanzia candida narrata da Uonderbois è ancora un futuro possibile?«Deve esserlo, altrimenti non c’è più speranza. Quando penso a mio figlio, sono spesso spaventata perché questo mondo è duro e lui è molto sensibile. Probabilmente soffrirà ma il mio desiderio è che non baratti mai questa sua sensibilità e dolcezza per omologarsi agli altri».