La Stampa, 9 dicembre 2024
Mario Tozzi sta con i lupi
Non c’è alcuna ragione di carattere economico o sociale, ma neppure (a imparare dai biologi più avveduti) di carattere naturalistico o etologico per salutare come necessario il declassamento del lupo europeo da “rigorosamente protetto” a semplicemente “protetto": si tratta di un’operazione politica in qualche modo populista, che strizza l’occhio agli agricoltori old-style, ai cacciatori e ai produttori di armi e che risente di un’ignoranza e di una malafede così profonde da destare un giustificato risentimento. Declassamento che apre la strada a massacri e stermini dell’animale più perseguitato del mondo, come già accaduto in altri continenti. Nel Parco nazionale di Yellowstone i lupi vennero distrutti nel XIX secolo e rimasero assenti dall’area protetta per oltre settant’anni. Vennero poi re-introdotti per porre un freno alla crescita senza limiti di wapiti e altri ungulati che aveva messo in pericolo gli stessi cervidi e compromesso gli ecosistemi endemici. Così i lupi prosperarono fino all’inizio del secolo XXI, quando il Governo Federale ridusse lo status di protezione, aprendo la strada così, di fatto, alla ripresa di un massacro che dal milione di individui presenti prima del 1930 portò a una riduzione del 90%. Cosa induce i sapiens a combattere così ferocemente il lupo fino a riportarlo in tutto il mondo sull’orlo dell’estinzione?Negli anni ’70 del XX secolo, in Italia, restavano forse un centinaio di lupi: la grande popolazione primigenia di questo predatore era stata sterminata da secoli di cacce e riduzione di habitat. A quel punto, al Parco Nazionale d’Abruzzo, dove si contava il maggior numero di individui, il WWF lancia l’Operazione San Francesco, per salvare il lupo da un’estinzione certa cercando di favorire la coesistenza tra questo grande predatore e gli allevatori, in una delle poche operazioni di tutela su larga scala ad aver avuto successo. Tanto che oggi la popolazione del lupo in Italia conta circa 2 mila individui, distribuiti principalmente in Appennino, anche se certo il lupo non può ancora considerarsi fuori pericolo. E senza alcuna re-introduzione: semplicemente si lasciò che questa specie riprendesse a fare ciò per cui è nata, andare. Stavolta proteggendola.Oggi, paradossalmente, lo stato di maggior salute del lupo rischia di ritorcersi contro di lui. Dopo aver penato anni per reintrodurre il lupo sul territorio, l’UE, di fatto, apre la via all’uccisione “legalizzata” di una specie altrimenti protetta. Tutto questo perché i lupi sarebbero troppi, senza che ci siano prove documentate sull’efficacia degli abbattimenti. E se l’obiettivo è quello di arginare le predazioni degli animali allevati, l’effetto potrebbe essere addirittura opposto, aumentando i lupi vaganti spaesati a causa della scomposizione dei branchi. E certamente incrementerebbe il bracconaggio, in qualche modo giustificandolo, come se si trattasse ancora di una specie nociva (altrimenti perché diminuire lo status di protezione?). Sebbene la popolazione nazionale del lupo sia in ripresa, non esistono ancora dati scientificamente robusti sul raggiungimento di una condizione certamente favorevole sul lungo periodo. E la possibilità di uccidere una specie protetta con un così alto valore simbolico è un pessimo segnale, anche da un punto di vista culturale. «Uccidere un lupo è come uccidere un fratello», ha dichiarato nel 2012 il capo della tribù degli Ojibwe, nel Wisconsin, quando fu declassata la tutela federale e riaperta la caccia.Come abbiamo ripetuto alla nausea, le alternative non mancano, a partire dalla prevenzione: per esempio, la sorveglianza del pascolo, la presenza di buoni cani da guardiania di razza pastore abruzzese-maremmano, le recinzioni fisse e mobili elettrificate che fungono da deterrente senza intaccare la popolazione dei lupi. Metodi accessibili anche grazie ai fondi europei. Nella stragrande maggioranza dei casi la combinazione di questi strumenti riduce notevolmente il rischio. Se vogliamo abbassare la questione al rango economico.Ma da un punto di vista culturale è, purtroppo, sempre lo stesso abisso che inghiotte i sapiens: quando parliamo di lupo non parliamo di un essere vivente, ma, di fatto, della proiezione delle nostre paure. «Quando entrano nella nostra mente i lupi diventano una metafora del selvaggio e del non civilizzato, come una banda criminale che vive fuori dalle norme e dalle convenzioni», scrive il biologo Carl Safina. Perciò reagiamo come se fossimo stati assaltati da una banda di ladri o entrassimo in conflitto con un’altra tribù, attrezzando una specie di disprezzo perché anche loro si permettono di andare a caccia. E il lupo è sempre cattivo e bisogna stare attenti.L’odio verso i lupi rassomiglia terribilmente a un odio razziale, si articola in dinamiche simili e si presta alla strumentalizzazione politica: chi li difende è progressista, chi li vuole morti è di destra. Ma morti non basta: in realtà li si vuole massacrati, come dimostrano gli inquietanti episodi di impiccagioni e scuoiamento di lupi (soprattutto in Toscana). Si arriva ad avvelenare le carcasse delle loro prede, per decimarli anche quando non cacciano il bestiame dei sapiens. Esattamente come nel Medioevo, quando erano perseguitati e bruciati vivi appesi a un palo insieme con le streghe e gli eretici, portando anche la colpa di indurre in tentazione e spingere verso il male: una vendetta che raramente è stata applicata ad altri animali (e che qualcuno sospetta animare la stessa Ursula Von der Leyen, per via del suo pony Dolly apparentemente ucciso da un lupo nel 2022).L’esperienza di ripopolamento del Parco di Yellowstone, mutatis mutandis, ha dimostrato che la presenza del lupo, attraverso azioni a cascata, ha effetti positivi anche sulla vegetazione e addirittura sulla stabilità delle sponde fluviali, limitando perfino il dissesto idrogeologico. Siccome in una terra senza predatori non c’è pace prima di tutto per le prede, i wapiti nordamericani e gli altri ungulati, quando i lupi furono sterminati, brucavano così intensivamente da rivoluzionare la vita di tutti, fino a minacciare i castori e altri animali, dunque la presenza di laghetti, dunque la vita dei pesci, dunque la stabilità idrogeologica dei territori. Il ritorno dei lupi ha liberato le piante all’appetito pantagruelico dei wapiti, riducendone il numero naturalmente. Così ripresero a prosperare pesci, anfibi e uccelli e si arrivò all’attuale ripristino dell’ecosistema. Che sarebbe indispensabile nel nostro Paese, sovraffollato di cervi, daini e cinghiali che provocano una serie di danni a cascata proprio perché privi di predatori. Ridurre i lupi non è una buona idea, ma per comprenderlo bisognerebbe affidarsi alla cultura biologica e naturalistica, abdicando al trono di specie eletta sul quale i sapiens si sono issati senza avere né i titoli né i meriti.