La Stampa, 9 dicembre 2024
L’ultimo smacco per Putin
Dieci anni fa, Bashar Assad si vantava di “non essere un Yanukovich": «Non fuggirò mai dalla Siria», aveva promesso al suo protettore Vladimir Putin. Ora, il dittatore siriano sta prendendo la residenza in qualche dacia vicino a Mosca vicino a quella dove si rifugia dal 2014 l’ex presidente ucraino fuggito dalla rivolta sul Maidan. L’esultanza di queste ore a Damasco non può non aver ricordato al padrone del Cremlino le scene viste a Kyiv, tra statue che cadono, porte delle prigioni che si aprono per far uscire i nemici del presidente, gente che esulta in piazza e il lusso del palazzo presidenziale svelato alla curiosità dissacrante della folla. Quello che sta accadendo in queste ore a Damasco è l’incubo che Vladimir Putin sta rivivendo già per la terza volta, dopo essere rimasto sconvolto dal linciaggio, nel 2011, di Muammar Gheddafi. Vedere un popolo che aveva votato il proprio leader unico con il 95% dei consensi danzare di gioia calpestando i suoi ritratti, per un dittatore, è sempre un “memento mori": le dittature non muoiono spesso nel loro letto.Non che i russi avessero avuto grandi illusioni sulla tenuta di Assad, visto che era stato proprio l’intervento militare di Mosca, nel 2015, a salvarlo da una caduta che appariva imminente (per non parlare di Viktor Yanukovich, agli occhi di Putin soltanto un aspirante autocrate, che si era buttato tra le sue braccia per non perdere le prossime elezioni). Oltre a un’amicizia con Mosca di vecchia data, risalente ancora all’epoca sovietica, il dittatore di Damasco aveva rappresentato per Putin fondamentalmente un solo vantaggio: quello di poter sfidare l’Occidente e gli Stati Uniti in particolare, iniziando a costruire la sua alleanza alternativa di dittatori.Un’operazione costata decine di miliardi di euro, come si era vantato a un certo punto lo stesso Putin, migliaia di vite di civili siriani (e centinaia di vite di soldati russi) e qualche città ridotta in macerie nel corso del «collaudo in combattimento» (altra definizione putiniana) delle armi russe.«Tutto quello che la Russia aveva conquistato per Assad nel corso di due o tre anni, è stato perso in due o tre giorni”, scrive il politologo russo in esilio Aleksandr Baunov. Il tentativo tardivo di far dire a qualche «fonte informata» del Cremlino che la fuga di Assad sia stata in realtà parte di un negoziato mediato da Mosca non riesce a nascondere la portata del fallimento, con le navi russe che avevano abbandonato il porto siriano di Tartus – con il pretesto di una improvvisa «esercitazione missilistica» – già una settimana fa, e parte del contingente russo in Siria ancora bloccata, a quanto pare, nelle zone in mano ai ribelli. Nulla di strategico: la base di Tartus era potenzialmente una chiave per il Mediterraneo, ma la marina militare russa è troppo debole per competere con la flotta della Nato, e il grosso delle truppe scelte che avevano combattuto in Siria sono già state macinate nel tritacarne del Donbas (senza contare il gruppo Wagner, quasi smantellato dallo stesso Putin dopo il tentato golpe di Evgeny Prigozhin). Come alleato Assad rappresentava più una voce di uscite (cospicue) che di guadagni, non riuscendo a fornire in cambio della protezione né aiuti militari (come l’Iran o la Corea del Nord), né potenziali asset economici (come il Venezuela o alcuni Paesi africani). Mantenendolo al potere, la Russia faceva un favore a Teheran, e soprattutto sfoggiava, almeno secondo il Cremlino, il suo potenziale “geopolitico”.Il problema è che la scommessa su dittatori vacillanti è sempre ad alto rischio, e il fatto che Donald Trump abbia già commentato pubblicamente il fatto che la Russia non abbia potuto (e forse nemmeno voluto) salvare Assad perché «aveva perso interesse verso la Siria per l’Ucraina... per una guerra dove ha perso 600 mila soldati russi». Putin è avvisato: entrerà nel negoziato con la nuova Casa Bianca con l’immagine di un leader in difficoltà. Il prossimo presidente americano giudica la forza e la debolezza con criteri molto simili a quelli putiniani, e dopo aver ironizzato molto sulla fuga dall’Afghanistan degli Usa, percepita come un segno di fragilità americana (un’interpretazione che è stata cruciale nella decisione russa di invadere l’Ucraina), ora è Mosca a venire vista come perdente. Con la differenza che Joe Biden aveva preso la decisione di ritirarsi da Kabul di propria volontà, mentre i russi stanno fuggendo da Tartus e Hmeymim perché non possono fare altrimenti.La scelta di scommettere sui nemici dei propri nemici, per creare il proprio mini “Asse del Male”, sta portato la Russia in un vicolo cieco, come si è visto molto chiaramente anche durante le celebrazioni al Notre-Dame di Parigi: Putin, che si professa paladino dei valori cristiani, non è stato nemmeno invitato, rimanendo a Mosca ad allestire il suo condominio dei dittatori rovesciati.