La Stampa, 9 dicembre 2024
Erdogan sognava di pregare a Damasco. Ora l’ha conquistata
I ribelli siriani hanno fatto in dieci giorni quello che non erano riusciti a fare in dieci anni. La guerra civile era scoppiata nel febbraio del 2012, da primavera araba si era trasformata in insurrezione armata. Gli stessi nomi di città. Hama, Homs, Aleppo, le roccaforti sunnite in fiamme. Il regime di Bashar al-Assad era sopravvissuto prima con l’appoggio degli alleati sciiti. Il libanese Hezbollah aveva inviato le sue forze migliori, fino a 20 mila uomini, l’Iran armi, ufficiali dei Pasdaran, soldi. Non bastava. Nell’estate del 2015 i ribelli, sempre più radicalizzati, lanciavano colpi di mortaio nel giardino del palazzo presidenziale a Damasco. Assad viene salvato da Vladimir Putin: due squadroni di cacciabombardieri, migliaia di uomini delle forze speciali, i Wagner. Ad aiutarlo era anche l’Isis che dominava su mezza Siria e mezzo Iraq. L’appoggio americano all’insurrezione non era possibile, Washington decideva di appoggiare solo i curdi nel Nord-Est e piccole formazioni minori, arabi non jihadisti.La controffensiva del raiss è durata dalla fine del 2015 alla fine del 2019. Si è ripreso tutto tranne Idlib. Lì gli ex qaedisti di Mohammed Abu al-Joulani si sono rifugiati sotto la protezione della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Era il patto di Astana tra Putin, Khamenei ed Erdogan. Il 7 ottobre ha scosso quella che sembrava una spartizione definitiva. L’asse sciita si è schierato con Hamas e la causa palestinese, pur sunnita. Israele ha ridimensionato Hezbollah in Libano e la rete di basi iraniane in Siria. Ma non era sufficiente a far crollare Assad. Le fondamenta del regime erano corrose dal collasso economico e dallo sfaldamento dell’esercito. Fanti sunniti con paghe da fame, ufficiali sciiti (più qualche cristiano) nei posti chiave. L’esercito è evaporato alla prima spallata. Dieci anni fa Erdogan prometteva: «Pregherò a Damasco». Ha colto l’occasione. Ha aspettato la tregua in Libano, per non passare per quello che fa un favore a Israele contro gli sciiti impegnati a sostenere la causa palestinese. Ha assicurato a Putin e Khamenei che i suoi miliziani non avrebbero attaccato. Poi è partito il blitz. Ora potrà trattare il futuro dalla Siria da una posizione di forza. Vuole tutto il Nord nella sua fascia di influenza, pur senza annetterlo. Vuole distruggere le milizie curde legate al Pkk, che si sono riorganizzare nelle Forze democratiche siriane, sotto l’ombrello americano. Ombrello che Donald Trump, l’ha fatto capire ancora ieri, è propenso a chiudere.Putin rischia di perdere le sue basi lungo la costa sciita della Siria, Tartus e Lattakia, dove le truppe sovietiche e poi russe hanno stazionato per oltre mezzo secolo. Khamenei ha già perso l’autostrada sciita che andava da Baghdad a Beirut. Le milizie filo-iraniane si devono ritirare verso l’Est dell’Iraq, Paese per il 70 per cento sciita, ultimo cuscinetto di protezione per Teheran. Erdogan e i suoi alleati sunniti, jihadisti con una patina di moderazione a uso dei media, è padrone di quasi tutta la Siria. I governi di Giordania ed Egitto tremano nel vedere i loro nemici mortali, i Fratelli musulmani, trionfare in quella che è stata la culla del nazionalismo arabo laico. I Paesi del Golfo, pur islamici conservatori, hanno gli stessi timori. L’immagine di Al-Joulani nella moschea degli Omayyadi a Damasco, dove è sepolto il Saladino conquistatore di Gerusalemme, non rincuora Israele. È nato un nuovo Medio Oriente, ancora più instabile e pericoloso.