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 2024  dicembre 09 Lunedì calendario

Da Hafez a Bashar crolla dopo 54 anni la dinastia dei tiranni

Cominciata sull’aereo che nel giugno del 2000 lo riportava in patria da Londra, alla morte improvvisa del padre per un infarto, la dittatura di Bashar al Assad è finita questa settimana a bordo di un altro aereo, sul quale è fuggito da Damasco. In mezzo a quei due voli, per un quarto di secolo il Rais siriano ha cercato di essere il degno erede del proprio genitore, dimostrando simile ferocia ma non altrettanta scaltrezza. Ciononostante, fra l’uno e l’altro per 54 anni hanno tenuto un Paese di 23 milioni di abitanti sotto un tallone di ferro. Non pochi leader occidentali si riconoscono probabilmente nel giudizio espresso a caldo dal premier laburista britannico Keir Starmer: la fine del loro odioso regime è da accogliere “con favore”, seppure fra timori su ciò che seguirà.Solo in piedi dietro la bara del padre Hafez, in abito e occhiali scuri, alto un metro e novanta ma dal poco atletico fisico a pera, le braccia penzoloni lungo i fianchi, a noi giornalisti stranieri, sopraggiunti a Damasco per il funerale, Bashar sembrava l’erede sbagliato. Era diventato dittatore per caso: ad Assad senior doveva succedere il primogenito Basil, addestrato in un’accademia militare sovietica, paracadutista, colonnello delle forze speciali, grande cavallerizzo, carismatico e amante delle auto da corsa. Senonché nel 1994 Basil era morto, proprio in un incidente d’auto, e come in una monarchia era toccato al fratello minore prenderne il posto.Quel giorno le previsioni erano di due tipi. I pessimisti scommettevano che non sarebbe durato: Bashar era un medico oculista 34enne, privo di esperienza militare o politica, timido di carattere, forse un frustrato. Gli ottimisti speravano che l’esperienza in Occidente lo avrebbe spinto a graduali riforme: dopo la laurea aveva lavorato due anni in un ospedale della capitale britannica, dove aveva conosciuto la moglie Asma, nata nel Regno Unito, figlia di un diplomatico siriano, una first- lady attraente e moderna, istruita nelle migliori scuole private inglesi e laureata anche lei a Londra, in informatica. Una passione comune: i colleghi londinesi lo descrivevano come un “geek”, attratto dalle nuove tecnologie.Entrambi i pronostici si sono rivelati sbagliati. Assad junior è rimasto al potere a lungo e non ha affatto democratizzato la Siria, usando repressione e violenza quanto il padre. Ma ancora più di Assad senior si è legato a potenze straniere per rimanere in sella, l’Iran e la Russia; e assai più di Hafez ha tollerato sacche di resistenza interna. La sua corruzione ha contagiato l’esercito siriano, rendendolo imbelle. Quando la guerra in Ucraina ha distratto Mosca e i raid di Israele in Libano hanno piegato gli Hezbollah, alleati di Teheran, Bashar si è ritrovato isolato: “Non possiamo salvarlo noi, se i suoi soldati non combattono”, ha detto una fonte iraniana al New York Times mentre i ribelli islamici marciavano verso la capitale. Come il padre, appartiene inoltre alla setta degli alawiti, una minoranza islamica sciita: ulteriore elemento di impopolarità in una nazione a stragrande maggior anza sunnita.Anche Assad padre diventò presidente relativamente giovane, a 39 anni: ma era un generale nazionalista, collaudato dai conflitti contro Israele. Quando la città di Hama si ribellò, la fece radere al suolo, uccidendo 40 mila persone: il più grande massacro di civili compiuto da un Paese arabo contro la propria gente. Sulla sua spietatezza circolava questa storiella. In Siria si tiene una delle tante elezioni-farsa. Un consigliere gli comunica che le ha stravinte: “Ha votato per lei tutto l’elettorato tranne tre persone, signor Presidente, cosa potrebbe chiedere di più?” E lui di rimando: “I nomi di quei tre”.In materia di atrocità, il figlio non è stato da meno. Ha soppresso con brutale violenza la Primavera araba, rinchiuso in carcere dissidenti e avversari, autorizzato bombardamenti a tappeto per sopravvivere alla guerra civile: la stessa tecnica che Putin aveva usato in Cecenia e usa in Ucraina. Chissà se, sull’aereo che lo ha portato via appena in tempo da Damasco, ha ripensato al mattino del 2000 in cui, nel palazzo presidenziale in cima a una collina, ricevette le condoglianze del presidente francese Chirac, del premier italiano Prodi, del presidente egiziano Mubarak. Ci appariva a disagio nella parte: non sapeva come liberarsi dal leader palestinese Yasser Arafat, che non smetteva di baciarlo. Sulla medesima altura, nel 1918, Lawrence d’Arabia aveva avvistato per la prima volta Damasco, dopo avere attraversato il deserto con l’armata di beduini e cammelli che contribuì a sancire la fine dell’Impero Ottomano. Ora dalla stessa collina è calata un’altra armata disordinata e scomposta, mettendo fine alla “Dinasty” degli Assad