Corriere della Sera, 9 dicembre 2024
Il Paese più laicista e secolarizzato d’Europa si è fermato, inorgoglito, emozionato per la riapertura di una chiesa
Alla fine il Paese più laicista e secolarizzato d’Europa si è fermato, inorgoglito, emozionato per la riapertura di una chiesa.
A ll’evidenza, non era solo una chiesa; era, è, la cattedrale del popolo. Così come quelli che vedemmo bruciare in diretta tv cinque anni fa erano legni e metalli; non era Notre-Dame. Non la sua essenza; e neppure la sua sostanza.
Notre-Dame era già stata ricostruita nell’Ottocento. E a farlo, prima dell’architetto neogotico Viollet-le-Duc che reinventò le gargouilles e la guglia, era stato uno scrittore, Victor Hugo. I rivoluzionari l’avevano devastata e vagheggiavano di farne il tempio della Dea Ragione, oppure una cava di pietra. Victor Hugo non era animato da spirito religioso. Era un romantico che aveva intuito una cosa sfuggita nell’impeto rivoluzionario: Notre-Dame era la Francia. Un popolo è il proprio passato; quindi la Cattedrale dedicata alla Madonna rappresentava l’identità nazionale meglio ancora di Giovanna d’Arco o della Gioconda, già allora esposta al Louvre. Così lo scrittore inventò un amore impossibile tra un gobbo e una zingara, le due creature più disprezzate, che all’ombra delle navate trovavano riparo dalla crudeltà del potere. Il successo fu immenso. Da lì nacque l’idea di salvare la cattedrale.
I rivoluzionari avevano abbattuto le statue della facciata: raffiguravano i re di Giuda, ma ai loro occhi erano l’emblema dei sovrani di Francia. A dire il vero, però, Notre-Dame non era mai stata la chiesa della monarchia. I re si facevano incoronare a Reims e seppellire a Saint-Denis. Il cardinale primate di Francia risiedeva altrove, a Sens. Notre-Dame era appunto la chiesa del popolo, in cui al più i re si sposavano, offrendo ai sudditi i festeggiamenti.
Per questo Napoleone si fece incoronare proprio a Notre-Dame «imperatore dei francesi», sia pure in quel modo insieme grandioso ed eccessivo che l’avrebbe portato a una triste fine (ma in fondo il grande corso, più che francese, era uno dei nostri; di sicuro in casa parlava dialetto o italiano, e parlò francese con accento italiano per tutta la vita). La mamma, Letizia Ramolino, non potendo vedere la nuora incoronata imperatrice, restò a casa; Napoleone ordinò a Jacques-Louis David di raffigurarla lo stesso. Il pittore eseguì.
La vera riapertura di Notre-Dame è stata quella di ieri, la messa aperta a tutti, più che la parata del giorno prima con Trump, Musk e altri potenti, in cui Emmanuel Macron si è come di consueto preso la scena, facendosi fotografare con tutti i capi di Stato e di governo, uno per volta, intirizziti dalla pioggia – la nuvola di Macron – che già aveva preso di mira l’inaugurazione dell’Olimpiade. I parigini che nel 2019 avevano trepidato, nella notte in cui a un tratto sembrò che la cattedrale fosse perduta, ieri l’hanno riempita, fotografata, postata come a rivendicare un orgoglio nazionale, che forse non è più la fede di un tempo, ma certo è la riaffermazione di un’identità. E forse questo sentimento è più sincero e appropriato della scelta politica con cui Giscard non volle citare nella Costituzione europea le radici giudaico-cristiane.
Diversamente si comportò Charles de Gaulle, nell’ora della liberazione di Parigi. Non fu certo solo per compiacere la moglie, la cattolicissima Yvonne, che il Generale (pure lui credente e praticante) ordinò al generale Leclerc di arrivare il prima possibile a Notre-Dame, sul sagrato da cui partono idealmente tutte le strade di Francia. L’avanguardia della France Libre era la nona compagnia della seconda divisione, composta soprattutto da repubblicani spagnoli, tra cui molti mangiapreti, che avevano ribattezzato i loro blindati Guernica e Guadalajara, ma rimasero comunque colpiti dall’arditezza delle architetture, delle volte, dei contrafforti. Appena poté, il 26 agosto 1944, de Gaulle andò di persona nella cattedrale dei francesi, accolto dal cantico del Magnificat intonato sul sagrato da 40 mila parigini, che all’evidenza lo sapevano.
Quando poi nel 1970 il Generale morì, il suo funerale fu celebrato ovviamente a Notre-Dame, sia pure senza bara. Decine di telecamere vennero installate dentro e fuori la cattedrale: l’evento fu trasmesso in mondovisione e seguito da 300 milioni di telespettatori, mentre i funerali veri si tenevano per volontà del defunto nel suo villaggio dell’Alta Marna, Colombey-les-deux-Églises, di cui lui amava dire agli interlocutori algerini, cui riconobbe l’indipendenza: «Se fossi vissuto da voi, sarei vissuto a Colombey-les-deux-Mosquées».
Qualcosa del genere accadde anche in morte di François Mitterrand: a Notre-Dame c’era il suo successore, Jacques Chirac, accanto all’arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger, ebreo convertito al cattolicesimo, a celebrare una sorta di alleanza tra il trono e l’altare; c’erano capi di Stato e di governo di tutto il mondo, compresi Fidel Castro e Yasser Arafat (che uno Stato non l’aveva); ma non c’era il feretro. Mitterrand nel frattempo veniva sepolto a Jarnac, alla presenza delle sue due famiglie, quella ufficiale e quella clandestina; e la moglie Danielle abbracciò la figlia naturale Mazarine.
Per tutti questi motivi, Notre-Dame sarebbe comunque sopravvissuta al rogo. Averla riaperta in così poco tempo non è solo un successo politico per un presidente bistrattato al di là dei suoi innegabili errori; è una pagina di storia di questo vecchio continente che, con tutti i suoi orribili difetti, resta il cuore pulsante del mondo.