Corriere della Sera, 9 dicembre 2024
Putin userà la Siria come credito per i futuri negoziati
Chissà che fine avrà fatto quel Corano del Seicento. Durante il suo ultimo viaggio in Siria, Vladimir Putin lo regalò a Bashar al Assad, mentre entravano insieme nella Grande Moschea degli Omayyadi. Gennaio del 2020, il giorno del Natale ortodosso. I due presidenti avevano constatato il «grande progresso nel ripristino della statualità e dell’integrità territoriale del Paese». Un anno dopo, il generale Kostiukov, capo del Gru, l’intelligence militare russa, aveva confessato al canale televisivo Rossiya1 che quella trasferta segreta era stata la missione più difficile della sua carriera. «Non avevamo diritto nemmeno ad un minuscolo sgarro», raccontò.
Putin ci teneva, eccome. Era il suo fiore all’occhiello in chiave antioccidentale. Mosca cominciò a mettere mani e piedi in Medio Oriente all’epoca di Nikita Krusciov. Armi e consiglieri militari, a Egitto e Iraq, in cambio di petrolio. Era una conseguenza della guerra fredda. Da quelle parti, l’inglese dei colonizzatori britannici e americani, primi protettori di Israele, era lingua non grata. Quando Boris Eltsin aprì all’Occidente, il legame si allentò per una decina d’anni, compreso il periodo del Putin in versione più o meno liberale. Ma il suo primo invito ad Assad risale al 2005, l’anno in cui il presidente russo incomincia a prendere le distanze da Usa ed Europa. Da allora, amorosi sensi e incontri a cadenza come minimo semestrale.
«Qualsiasi cosa gli Usa toccano, subito si trasforma in Libia o Iraq». Questa frase, pronunciata per la prima volta al Forum della gioventù nell’agosto del 2014, Putin l’ha ripetuta spesso. Ma allora la utilizzò per denunciare le interferenze americane sullo scenario internazionale e legare la vicenda dell’Ucraina, dove era appena intervenuto, con la guerra civile siriana, dove stava per farlo in maniera ancora più pesante. Nel 2011, nel bel pieno delle primavere arabe, la Russia aveva invocato il precedente del caos libico per porre il veto a una risoluzione del Consiglio di sicurezza Onu che condannava le violenze compiute dal regime di Assad. «Vogliamo mettere fine all’azione di chi usa le opposizioni per rovesciare i governi legittimi» spiegò il ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Parole che negli ultimi tre anni da parte russa sono risuonate a proposito di Kiev, non di Damasco.
L’ordine che regnava sovrano in Siria, a costo di massacri sulla popolazione civile, era tutto quello che l’odiato Occidente non riusciva più a fare in Medio Oriente. L’aspetto commerciale è diventato sempre più un dettaglio. Con la guerra ai ribelli, il petrolio che nel 2013 Assad aveva autorizzato a cercare nel sottosuolo siriano, è sceso da 380.000 barili al giorno ai quindicimila del 2023. Poca roba. Anche l’ambizione imperiale è ormai affievolita. L’unico alleato d’area, l’Iran è preso da altre vicende. Il Mediterraneo è sempre più presidiato dalle flotte straniere.
La Siria non è l’Ucraina, e mai lo sarà come peso specifico. Dal 2015 a oggi, Putin parlava di Damasco perché l’Occidente capisse su Kiev. Lo disse in modo esplicito nel settembre 2021, durante una delle visite di Assad a Mosca. «Forze armate straniere e terroristi sono ancora presenti in singoli territori in contrasto con il diritto internazionale... Ma questo problema non riguarda solo la Siria». Mancavano cinque mesi all’Operazione militare speciale.
La priorità è sempre stata un’altra, e tale rimane. Gli analisti più avveduti invitano a non prendere la presunta arrendevolezza mediorientale di Putin come un segno di debolezza destinato a riverberarsi sull’Ucraina. È l’esatto contrario. La ferita siriana verrà usata come un credito da esigere al tavolo di futuri e più importanti negoziati, sostiene ad esempio Mark Galeotti, uno dei principali esperti di sicurezza russa. Anche l’asilo ad Assad è un atto dovuto che verrà motivato e fatto pesare al momento opportuno. L’Ucraina è ormai percepita come una questione esistenziale. Mentre ai russi, e alle loro celebri élite, è sempre importato poco o nulla della Siria. Questa è una delle principali ragioni per cui la guerra contro l’Isis e i ribelli è stata combattuta dai mercenari del Gruppo Wagner e non dalle truppe regolari. Nell’ultima settimana, solo Lavrov ha parlato di Siria. Putin, nemmeno una parola. I media vanno in ordine sparso. Non è ancora stata data la linea. Anche questo è un indizio.
Lo scorso 24 luglio, al Cremlino, Putin avvertì senza mezzi termini l’alleato storico. «L’inasprimento della situazione nell’area potrebbe riguardare direttamente anche la Siria». In quell’occasione, forse al dittatore siriano venne detto di non sperare nell’assistenza militare russa. E forse, venne anche concordata la via di fuga odierna. Chissà se invece Assad ricorda quel che disse a Russia Today nel 2011: «L’Occidente non mi costringerà mai ad andarmene. Sono nato in Siria. Devo vivere e morire in Siria». Ma di questi tempi, la ruota della Storia, con la maiuscola, sta girando molto veloce.