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 2024  dicembre 09 Lunedì calendario

Gli israeliani sulle alture del Golan

Con il piumino nero d’ordinanza, che protegge dal vento sulle alture del Golan o dall’aria condizionata nelle riunioni con lo Stato Maggiore, il premier Benjamin Netanyahu sale verso il Nord del Paese per guardare dall’altra parte. Per cercare di inquadrare le scene che pochi avevano previsto: l’11 dicembre del 2011 Ehud Barak profetizzava «i giorni di Bashar Assad sono contati». Da allora il ministro della Difesa israeliano è andato in pensione e si è lasciato crescere la barba, il dittatore siriano era rimasto al potere e porta sempre gli stessi baffetti. 
Barak, da primo ministro, aveva disegnato quasi 25 anni fa la mappa di una possibile pace con la Siria su un tovagliolo di carta al bar del parlamento israeliano. Al potere ancora per pochi mesi c’era il capostipite Hafez Assad, l’offerta del leader laburista comprendeva il ritiro israeliano dalle alture del Golan catturate nella guerra del 1973. Non è successo: il Leone di Damasco credeva di avere le zanne, adesso le truppe di Tsahal si stanno muovendo all’interno della fascia demilitarizzata, prendono il controllo del lato siriano del Monte Hermon, la cima seminata di mine antiuomo: su quei pendii è permesso muoversi solo d’inverno con gli sci, quando la neve alleggerisce il peso sugli inneschi.
Il primo ministro estende le manovre dei soldati – «gli accordi del passato sono decaduti» – e una sorta di abbraccio al di là della linea d’armistizio: «Il collasso del regime è il risultato diretto delle nostre azioni contro Hezbollah e l’Iran, i suoi sostenitori. Il crollo della tirannia a Damasco offre grandi opportunità per il Medio Oriente, ma anche pericoli». È ai rischi che pensa, quando ordina di bombardare i depositi di armamenti, l’intelligence militare sa dove potrebbero essere i depositi di armi chimiche che il clan ha sviluppato, nonostante le promesse agli americani di smantellare i laboratori della morte.
Era stato il premier Ehud Olmert, con Barak alla Difesa, a ordinare nel 2007 il raid sul reattore nucleare che Bashar Assad stava costruendo con l’aiuto degli ingegneri nordcoreani: in tre minuti sopra i cieli della Siria i jet avevano distrutto la minaccia di un avversario atomico. L’operazione era stata chiamata «Fuori dagli schemi» e al di là dei vecchi meccanismi, dovrebbe ragionare Netanyahu, superando le pressioni dell’estrema destra nella coalizione che già invoca altre conquiste territoriali. Riassume Amit Segal, tra i suoi cultori nei telegiornali israeliani: «Per la prima volta dalla guerra dei Sei Giorni siamo al di là delle linee nemiche su tre fronti, a Gaza, nel Sud del Libano e in Siria».
È l’euforia della vittoria come nel 1967, l’ideologia che ha portato all’occupazione dei territori palestinesi. Bibi, com’è soprannominato, non rinuncia a divulgare le speranze per un nuovo Medio Oriente. L’amico Donald Trump, al primo mandato da presidente, ha riconosciuto l’annessione del Golan, gli israeliani hanno intitolato un nuovo villaggio a suo nome sugli altipiani verso la Siria. Allo stesso tempo, l’inquilino rientrante alla Casa Bianca sembra puntare a una pace complessiva nella regione, incompatibile con le pretese espansionistiche proclamate dagli alleati di Netanyahu.