Corriere della Sera, 9 dicembre 2024
Damasco è caduta in mano ai ribelli
Damasco è libera. I soldati di Bashar al-Assad hanno ceduto le armi. Non è un modo di dire, hanno proprio consegnato kalashnikov e caserme ai ribelli e se ne sono andati. Indisturbati.
Ci sono divise ovunque ai lati delle strade, giacche, camicie cachi, tutte abbandonate nel primo giorno dell’era post Assad. E neppure un cadavere. Gli spari sono solo in aria. A migliaia, per l’intero pomeriggio fino a notte inoltrata, abbastanza da assordare chi è lì vicino e creare un tappeto di bossoli nella grande piazza degli Omayadi, la dinastia che da Damasco comandava mezzo mondo. La gente della capitale resta chiusa in casa. Spera che sia tutto vero. Che questa sia sul serio la «rivoluzione della misericordia e non della vendetta». Così l’ha chiamata il capo della rivolta che in una settimana di avanzata fulminea ha chiuso 53 anni di dittatura e 13 di guerra civile.
La conquistaAbu Mohamed al-Jolani è arrivato nella capitale, si è inginocchiato e ha baciato l’asfalto, come fosse un Papa, poi è andato a casa dei genitori. L’ex membro di Al Qaeda, l’ex rappresentante dello Stato Islamico non dormirà nel palazzo del dittatore. Avrebbe potuto farlo, ma anche questo è un segno di moderazione. In moschea ha detto «è la vittoria della Umma», il mondo musulmano, dal Marocco al Bangladesh, avrebbe potuto dire è una vittoria sunnita. «Non sostituiremo il potere di uno con quello di un altro» aveva detto. Sta mantenendo la parola. Sindaci, assessori, poliziotti, ministri, parlamentari: tutti restano al loro posto. Per il momento. Solo la famiglia e i sicari più stretti degli al Assad devono temere, ma siccome sono stati avvisati, hanno lasciato il campo per tempo.
La rivoluzione senza sangue sembra nascere da intese combinate prima di venire a distanza di tiro. Dopo Aleppo, praticamente non si è più combattuto, l’esercito di Assad non ha fatto altro che ritirarsi e arrendersi. Dal suo convento francescano padre Bahjat Karakach racconta la stanchezza di tutti i siriani e la loro speranza. «La Siria tutta sta festeggiando perché era stanca di fame e soprusi. Negli ultimi due o tre anni i gruppi islamisti comandati da al-Jolani hanno cambiato atteggiamento. Hanno restituito i beni confiscati ai cristiani e da quando sono entrati ad Aleppo mandano messaggi molto espliciti di tolleranza nei confronti delle minoranze. Il fatto che abbiano lasciato in piedi il governo lascia sperare che la svolta possa essere pacifica».
Le speranzeI siriani si aspettano una nuova Costituzione, la fine delle sanzioni, il ritorno della pace e della crescita economica. Sognano ad occhi aperti perché quel che vedono li rassicura. I palazzi della nomenclatura, le colline dove abita l’élite del regime, non sono prese d’assalto. Non è stato pestato neppure un fiorellino delle aiuole. La «Rivoluzione della misericordia» si è fatta violenta solo con le strutture più evidenti della famiglia Assad: il garage con Lamborghini e Mercedes, il Palazzo presidenziale che domina dalla collina l’intera città.
Un ragazzino aspetta rassegnato all’ingresso della strada che porta al garage delle meraviglie. È seduto su una scatola che sembra contenere una lavatrice. «Ce n’è un’altra là dentro, nuova nuova come questa. Solo che stanno sparando con i kalashnikov per prenderla a mio papà».
Sciacalli, saccheggiatori, ci sono a tutti i cambi di regime. I primi li abbiamo visti appena attraversato il confine dal Libano. Entrare in Siria è sempre stato un incubo. Permessi col contagocce, controlli a non finire. Ieri invece era semplicissimo, senza permessi e senza controlli, ma era come oltrepassare le colonne d’Ercole, da lì in avanti terra incognita.
Cosa ci sarà al di là? Terroristi? Bande armate? Sacche di resistenza? Banditi? I primi indizi non sono stati rassicuranti. La gabbiola del doganiere, gli uffici dei timbri erano vuoti, anzi saccheggiati. Avevano portato via anche le maniglie. Nessuna traccia dello Stato, di doganieri e poliziotti neanche l’ombra. Solo saccheggiatori e qualche barbuto col mitra a penzoloni che guardava dall’altra parte. E allora via, verso Damasco sull’autostrada vuota. Qua e là auto stracariche di gente e refurtiva. I barbuti lasciano fare quando si tratta di check point, ma supermercati e case private non vengono toccati. Resta intatto anche il villaggetto di legno di Natale. Le casette dei dolciumi sono chiuse, ma nessuno le ha prese d’assalto. Il discorso cambia avvicinandosi al Palazzo.
Il palazzo simbolo È il simbolo del potere degli Assad, modernissimo, enorme, circondato di posti di guardia, in cima alla collina più alta. Tutta Damasco vedendola, si ricordava chi era al comando. L’autista che ci ha caricato al confine ha paura. Non vuole andare «lassù».
Ma se dicono che è stato saccheggiato?
Anche se il regime è finito, la paura resta. È entrata sotto pelle, dopo anni di carcerazioni arbitrarie, torture e sparizioni. Alla fine cede: «Andiamo, ma non riprendetemi».
Davanti al cancello, monumentale anche quello, due ribelli stanno armeggiando con l’impianto elettrico. «Mi spiace, stiamo per chiudere. Alle 16, scatta il coprifuoco». L’ultima auto che lascia la reggia ha infilato nel bagagliaio l’enorme rotolo di una passatoia rossa larga due metri. Come dire, per il self service siete arrivati tardi.
Il centro delle celebrazioni è in piazza Omayadi. È una rotonda enorme che, per analogia, ricorda la piazza di Bagdad dove venne abbattuta la statua di Saddam Hussein. Qui la fine del dittatore è inscenata da bande di armati che sparano in aria tutti i proiettili che hanno risparmiato fino ad oggi per abbattere il regime. Cominciano a sparare a favore di telecamera nel primo pomeriggio e fino a tarda notte non smettono. Si cammina su un tappeto di bossoli. Tutta la città sente la potenza delle armi che non hanno ucciso. Pare Napoli a Capodanno, ma il messaggio è: ecco cosa avremmo potuto fare.
Assieme al nocciolo duro dei combattenti (li distingui perché rimangono in disparte, vigili, disciplinati) c’è una pletora di simpatizzanti che hanno ingrossato le fila della rivolta man mano che avanzava. «Questo mitra? Me l’ha dato un soldato alle 4 di notte, mentre entravamo in città». Pare un professore di liceo, sbarbato, con la giacchetta e la biro infilata nel taschino. Vengono da Daraa, Aleppo, dal confine con Israele, anche località dove i ribelli non sono ancora arrivati. Disarmati fino a che gli stessi militari di Assad hanno dato loro le armi e il potere.