Corriere della Sera, 8 dicembre 2024
Una nuova traduzione dei Sonetti di Shakespeare
I sonetti di Shakespeare sono fra le vette della letteratura mondiale, un misto di organizzazione drammatica, manierismo formale, slancio intellettuale e sensualismo. Il padre dell’anglistica italiana, Sergio Perosa (91 anni compiuti il 27 novembre), ne ha curato una nuova edizione per Marsilio.
William Wordsworth scrisse che, con i sonetti, Shakespeare aveva «dischiuso il suo cuore»; William H. Auden li considerava una «nuda confessione autobiografica». Perosa, lei che cosa ritiene?
«Sono una cosa incredibilmente alta fatta da un uomo incredibilmente basso. Sono 154 sonetti di altezza impressionante pubblicati per caso, subito scomparsi anche a causa dei contenuti omosessuali. Shakespeare era bisessuale, ma quel che conta è la sua grandezza da scrittore. Il suo stile è opposto a quello di Petrarca. I traduttori italiani hanno teso a dare ai sonetti di Shakespeare un suono alla Petrarca, invece è il suo opposto. Il verso di Shakespeare corrisponde a 12 o 14 sillabe italiane per cui è sbagliato usare l’endecasillabo. Ho cercato di renderlo in italiano senza italianizzarlo, accessibile, leggibile, non petrarchista».
Negli anni Cinquanta quasi nessuno leggeva in inglese, perché decise di iscriversi a Lingue?
«Venivo da Vicenza e volevo andare a Venezia, non a Padova. Sapevo francese e tedesco e scelsi inglese. Qualcuno studiava anche russo. Allora si insegnavano i sonetti di Shakespeare in italiano. Alloggiavo alla foresteria, sopra la stazione dei pompieri di fronte all’università».
Che incontri si facevano in quegli anni?
«Neri Pozza, Goffredo Parise, Nemi D’Agostino, Lionello Puppi. Il mio maestro, Carlo Izzo, mi fece conoscere William H. Auden seduto in un caffè a Santo Stefano: aveva l’aria arruffata e appena scritto La carriera di un libertino per Stravinskij. L’università Ca’ Foscari era molto libera. Mi laureai con una tesi in inglese su Francis Scott Fitzgerald: non sapevo nemmeno se sarebbe stata accettata».
Perché Fitzgerald?
«Era morto da non molti anni e mi aveva appassionato. Nel 1961 pubblicai il mio primo studio critico proprio sull’arte di Fitzgerald. Due anni dopo il libro fu tradotto in inglese».
Poi partì per gli Usa...
«Al terzo anno di università facevo da traduttore per gli americani della base Ederle di Vicenza. L’arrivo a New York non so descriverlo: l’insinuarsi nell’enorme baia dell’Hudson, la Statua della Libertà... Noi borsisti in terza classe fummo gli ultimi a sbarcare. Andai a Princeton per studiare i manoscritti di Fitzgerald: mi diedero quaranta casse di documenti e nessuno controllava. Di sera si cenava in toga, nel weekend affittavamo un macchinone per andare a visitare New York».
Come nacque, invece, la passione per Henry James?
«A fine anni Cinquanta tradussi per Neri Pozza La fonte sacra, un libro un po’ misterioso. James affrontava il grande tema del rapporto tra gli europei e gli Stati Uniti mentre io stavo vivendo quello contrario, era uno specchio per me. Allora non era uno scrittore apprezzato perché ritenuto aristocratico e borghese. I colleghi erano tutti di sinistra e mi chiedevano perché mi occupassi di uno scrittore borghese. Poi curai i due volumi dei Meridiani Mondadori. I romanzi brevi di James sono dei gioielli sebbene da noi non abbiano ottenuto successo».
Oltre a Shakespeare, Fitzgerald e James nel suo canone c’è anche Virginia Woolf...
«Curai il Meridiano della Woolf prima che Nadia Fusini ne facesse altri: allora si doveva restare al di sotto delle mille pagine. Scelsi i tre romanzi maggiori: fu uno dei primi casi in cui la Woolf fu considerata una scrittrice di talento. I giornali la consideravano una snob poco popolare, troppo raffinata e non impegnata. A me piaceva la sua incredibile capacità di scrittura, l’amore per lo stile, l’inglese al massimo grado di raffinatezza. Mi piaceva anche l’aspetto femminile e non femminista, grande donna isolata con vedute politiche non d’avanguardia».
Nel suo canone c’è anche un’altra scrittrice, Emily Dickinson...
«Non l’ho tradotta, curai un’introduzione negli anni Sessanta: è la poetessa più grande di ogni tempo. Oggi è riconosciuta, ma in quegli anni era una scoperta».
Infine Melville, più popolare...
«Fu scoperto nel Dopoguerra e tradussi L’uomo di fiducia. Tuttavia, finiti i tempi di Pavese e Vittorini con i quali si scopriva l’America, l’ambiente italiano opponeva resistenza verso autori americani e l’istituzione di cattedre di americanistica. Oggi la letteratura americana è più di tema sociale che di grandi scrittori: tutti scrivono di femminismo, razzismo... di grandi scrittori non se ne parla. Anche perché le università con i loro post colonial studies prediligono un atteggiamento ideologico allo studio dello stile».
Trieste, Ca’ Foscari, Princeton, New York: com’è cambiato lo studio negli atenei?
«Ho insegnato 45 anni e per molti semestri negli Usa, dove ho pubblicato tre libri. All’inizio non capivano come un italiano andasse in America a tenere corsi su autori americani. A quel tempo l’aspetto letterario era in primo piano, oggi non più. È giusto occuparsi di problemi sociali, ma questo non ha a che fare con i valori letterari o artistici. Le due cose sono scindibili: uno scrittore può essere impegnato ma di scarso valore e viceversa. Quanto alle leggi universitarie, i crediti e le norme Anvur fanno ridere. Ho nipoti che si stanno laureando e seguo queste riforme: le nostre tesi erano praticamente dei libri, adesso... tutto calcoli parametrici e burocratici».
E i giornali? Lei ha scritto per il «Corriere della Sera» per una cinquantina d’anni...
«Ho collaborato al “Corriere” e al “New York Times”. Al “Corriere” entrai sei mesi dopo Claudio Magris. Insegnavo a Trieste e la mia seconda laureata fu Marisa Madieri, scrittrice e poi moglie di Magris, che veniva in aula con lei. Era morto l’anglista Gabriele Baldini e Giovanni Spadolini – con il quale avevo collaborato senza conoscerlo al “Resto del Carlino” – mi telefonò. In via Solferino eravamo in due: Claudio Gorlier si occupava di letteratura americana, io di quella inglese. Poi c’erano vari esperti. Oggi nei giornali, sia in Italia sia in America, l’aspetto letterario è meno centrale: non ne faccio una critica, ma a volte vengono esaltati scrittori di non alta qualità».